Accusa di evasione archiviata? L’accertamento fiscale va avanti

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Il giudice tributario non può limitarsi a rilevare una pronuncia penale favorevole al contribuente
L’archiviazione in sede penale delle accuse di evasione in favore di un contribuente non blocca l’accertamento e, quindi, la responsabilità fiscale.
A questa conclusione è giunta la sentenza n. 3564 del 16 febbraio, con la quale la Corte di cassazione ha accolto le censure dell’Agenzia delle Entrate, rafforzando così la linea interpretativa che limita fortemente gli effetti del giudicato penale nel processo tributario.

Il fatto
Una società a responsabilità limitata, operante nel settore del commercio all’ingrosso delle carni, impugna un avviso di accertamento in materia di Iva con il quale l’ente impositore, sulla scorta di un processo verbale di constatazione, recuperava a tassazione indebite detrazioni d’imposta (ex articolo 19 Dpr 633/1972) per reiterata utilizzazione di fatture ritenute soggettivamente inesistenti da fornitori nazionali fittizi interposti nel traffico transfrontaliero delle carni, ma il cui effettivo destinatario commerciale era la società intimata. In particolare, la frode veniva perpetrata mediante un sistema d’interposizione fittizia che consentiva alla società di far apparire la merce, che in realtà veniva importata direttamente dalla stessa, come acquisita all’estero e rivenduta in Italia da altre società che non avevano né struttura organizzativa né patrimonio sociale, risultando peraltro le stesse amministrate o possedute da soggetti nullatenenti di comodo, successivamente falliti.

L’interposizione così strutturata è destinata a creare, da un lato, un debito d’imposta a carico della società “filtro” che, in realtà, non veniva assolto, e dall’altro un credito di imposta inesistente a favore della società ora resistente. Peraltro, la falsità delle fatture, ossia la loro provenienza da soggetti che in realtà non avevano venduto la merce, e la conseguente inesistenza dell’operazione commerciale sotto il profilo soggettivo, sono circostanze non contestate.

La verifica effettuata dalla Guardia di finanza comportava anche, di riflesso, denuncia all’Autorità giudiziaria, al fine di valutare la sussistenza delle violazioni di natura penali di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, che punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sul reddito o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi passivi fittizi. Si aggiunge al riguardo, per completezza espositiva, che, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera a), Dlgs 74/2000, con i termini “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono, secondo il testuale disposto normativo, non solo le fatture emesse a fronte di operazioni nella realtà in tutto o in parte inesistenti, ma altresì quelle che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Le fattispecie delittuose di cui all’articolo 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e al citato articolo 2 del Dlgs 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), sono integrate, oltre che dall’emissione o dall’utilizzazione nelle dichiarazioni annuali dei redditi e ai fini Iva di documentazione contabile, fiscalmente rilevante, che non corrisponda a operazioni reali, anche dall’emissione di detta documentazione da parte di soggetti diversi rispetto a quelli tra i quali è intercorsa l’operazione commerciale ovvero dalla successiva utilizzazione di detta documentazione nelle dichiarazioni annuali relative alle imposte citate da parte dell’operatore commerciale che ha ricevuto le fatture da un soggetto diverso rispetto all’effettivo esecutore della prestazione (Cassazione, 48039/2008).

La Commissione tributaria provinciale adita respinge il ricorso, la cui sentenza viene riformata dal giudice di appello, il quale, condividendo le argomentazioni dell’appellante, ha ritenuto che l’atto impositivo non fosse supportato da validi elementi probatori ma soltanto da “semplici presunzioni ed elementi indiziari che non appaiono peraltro né gravi né precisi né concordanti”. Inoltre, l’assunto della sentenza del gravame si basa anche sul dirimente esito favorevole del contestuale procedimento penale per la falsità delle operazioni, essendo quest’ultimo risultato infondato nelle accuse mosse al responsabile della società e, quindi, archiviato.

L’Agenzia delle Entrate oppone ricorso per cassazione in forza di due motivi, con i quali il secondo giudicato viene sostanzialmente censurato:
1. per vizi di motivazione, per avere la Commissione regionale ritenuto insufficienti, senza l’esposizione di un’adeguata motivazione, gli elementi indiziari offerti dall’ente impositore sulle incontestate circostanze di fatto idonee a sostenere la presunzione di evasione de qua
2. violazione di legge, per avere la stessa Commissione ritenuto fondante nel giudizio tributario l’avvenuta archiviazione del procedimento penale, senza spiegare, anche stavolta, le ragioni che “lo riteneva idoneo a superare il corredo di indizi diffusamente richiamato dall’Ufficio”.

Decisione sui vizi motivazionali
La Corte di cassazione ritiene fondate le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria. Quanto al primo motivo, l’affermazione del giudice di appello, secondo cui gli elementi posti dall’ufficio a base dell’accertamento sarebbero privi di supporti probatori, risulta “assolutamente generica” e, perciò, passibile di censura, non esternando adeguatamente le ragioni del proprio convincimento, in modo da rendere impossibile il controllo di legittimità sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento seguito. Soprattutto se poi tale ragionamento ha considerato gli elementi indiziari di parte pubblica versati in atti del tutto privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cassazione 1727/2007, 1569/2007, 27341/2005, 9100/2001).

Al riguardo, si rileva che la giurisprudenza della Suprema corte ha stabilito in più occasioni (cfr sentenze 1756/2006, 890/2006, 3114/1995, 2067/1998) che ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, nella duplice manifestazione di “difetto assoluto” o di “motivazione apparente”, quando il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. Si ricorda in proposito che la presunzione – conseguenza che la legge o il giudice trae da fatti noti (quelli accertati dalla polizia tributaria) per risalire a un fatto ignorato (entità dell’evasione fiscale) – costituisce essa stessa, senza necessità di altre prove, una fonte del convincimento del giudice (Cassazione 2699/2004), il quale è tenuto ad accertare che gli elementi indiziari a disposizione siano forniti del carattere di gravità, precisione e concordanza (articolo 2729 cc) (Cassazione 1575/2007). Questo giudizio, affidato alla prudenza del giudice di merito, non è sindacabile in sede di legittimità solo se adeguatamente motivato (Cassazione 7122/2006, 1216/2006, 154/2006, 9225/2005).

Ma il decisum di merito viene ritenuto esecrabile dalla Cassazione anche da un altro punto di vista, allorché non enuncia a sufficienza il significato che dovrebbe attribuirsi all’espressione “validi elementi probatori”, per distinguerla dalle “semplici presunzioni”, perché altrimenti tale asserzione potrebbe apparire addirittura arbitraria sul piano logico-giuridico, dato che proprio nel contesto normativo l’articolo 54, comma 1, ultimo periodo, del Dpr 633/1972 consente all’ufficio, anche mediante dati e notizie raccolti con le modalità stabilite dall’articolo 51 dello stesso Dpr 633, di procedere ad accertamento anche in base a presunzioni semplici che, se fondate su indizi gravi, precisi e concordanti, hanno in ogni caso l’effetto di spostare sul contribuente l’onere della prova contraria (Cassazione 25141/2009, 3590/2009, 3305/2009, 15299/2008, 10964/2007).
Detta prova contraria, a parte il diverso oggetto dedotto in giudizio, non può comunque essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento delle fatture contestate, che normalmente vengono usati fittiziamente, rappresentando un mero elemento indiziario la cui presenza, o assenza, deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali.

Decisione sulla violazione di legge
Con la sentenza 3564/2010, la Corte di legittimità ha anche accolto il rilievo dell’Amministrazione ricorrente relativo all’incidenza, nel processo tributario, delle decisioni assunte dal giudice penale in merito alle ipotesi di reato emergenti dall’accertamento, stabilendo che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di un provvedimento penale favorevole al contribuente e assumere automaticamente gli effetti nel giudizio di propria competenza (articolo 116 cpc), ma deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui lui è destinato a operare.
A tal fine – come già rilevato dalle sentenze 19481/2004, 11272/2001 e 9410/2000 -, la Corte ricorda, in tema di norme penaltributarie implicate nella vicenda, come l’articolo 12 del Dl 429/1982, secondo cui la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi e di Iva ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale, è stato prima implicitamente abrogato per effetto della entrata in vigore dell’articolo 654 del nuovo codice di procedura penale e dell’articolo 207 disp. att. cpp e poi espressamente abrogato dall’articolo 25 del Dlgs 74/2000.

In particolare, l’articolo 654 cpp, mentre ha confermato i limiti oggettivi dell’efficacia vincolante del giudicato penale ex articolo 28 cpp del 1930, ne ha ridefinito i limiti soggettivi, ponendo come condizione per l’estensione del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo il fatto che l’imputato, la parte civile o il responsabile civile abbiano partecipato al processo penale; tale norma opera, ex articolo 207 disp. att. cpp, anche per i reati previsti da leggi speciali e, quindi, dalle leggi penali tributarie, come stabilito dalla sentenza 586/2006 (cfr anche Cassazione 15089/2000).
Ciò significa che il riferito principio di diritto é anche conseguenza del mutato quadro normativo appena descritto, caratterizzato specialmente dalla disposizione per cui l’efficacia della sentenza penale in altri giudizi è subordinata alla circostanza che la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa, di modo che nessuna automatica autorità di cosa giudicata possa più attribuirsi nel giudizio tributario (neppure) alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992 (in precedenza, dall’articolo 35, comma 5, del Dpr 636/1972), e trovano ingresso, con rilievo probatorio, in materia di determinazione dell’Iva, anche presunzioni semplici, prive dei requisiti prescritti ai fini della formazione di siffatta prova tanto nel processo civile (articolo 2729, comma 1, cc), che nel processo penale (articolo 192, comma 2, cpp) (Cassazione 28564/2008, 5720/2007, 9109/2002, 6337/2002, 3961/2002, 889/2002, 15207/2001, 3421/2001).

In altri termini, non potendosi legittimamente riconoscersi autorità di cosa giudicata a un decreto di archiviazione (come nel caso di specie), non è neppure da escludersi che l’imputato, assolto in sede penale, anche con piena formula (per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste), potrebbe tuttavia essere responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, da parte dello stesso contribuente, a giustificare in tutto o in parte il debito tributario.

Osservazioni conclusive
Per concludere, appare anche utile aggiungere che gli assunti della pronuncia in narrativa hanno trovato ulteriore conferma, da ultimo, nella similare sentenza 4013/2010, nella quale la Suprema corte, in particolare, ha espresso il principio di diritto in base al quale, in tema di Iva, se l’Amministrazione finanziaria contesta al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a operazioni inesistenti, la prova della legittimità della correttezza delle detrazioni, legata all’effettività delle operazioni poste in essere, deve essere fornita dal contribuente, e che tale prova, tuttavia, non può essere limitata alla circostanza rituale dell’esibizione dei mezzi di pagamento, i quali rappresentano un mero elemento indiziario da valutare attentamente nel coacervo di tutti gli altri fattori acquisiti al processo.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/accusa-di-evasione-archiviata-l-accertamento-fiscale-va-avanti