Licenziamento impugnato fuori termine: preclusi reintegro e risarcimento

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La mancata impugnazione del licenziamento nel termine prefissato (60 gg.) preclude al lavoratore sia l’azione di reintegro che quella di risarcimento del danno.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, nella sentenza 5 febbraio 2010, n. 2676.
La vicenda ha riguardato alcuni lavoratori, risultati in esubero nell’ambito delle procedure di cui alla legge 223 del 1991, che hanno impugnato tardivamente i rispettivi intimati licenziamenti, ritenuti illegittimi, per vedersi riconoscere la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione ed al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o, in via subordinata, al risarcimento dei danni in base alle regole del diritto comune.
I giudici di prime cure, accertando l’inammissibilità della domanda proposta fuori termine, hanno accolto soltanto l’azione risarcitoria promossa in via subordinata dai ricorrenti.
La Corte di Cassazione non ha però condiviso però siffatta conclusione.
Al riguardo, ha precisato che, se pur un risalente indirizzo (Cass. sez. lav., 5.2.1985, n. 817; Cass. sez. lav., 24.6.1987, n. 5532; Cass. sez. lav., 2.3.1999, n. 1757) ha affermato che la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato dalla legge preclude al lavoratore solo la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi della Legge n. 300/1970, senza limitare allo stesso, in presenza dei relativi presupposti, la possibilità di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali, tuttavia, tale assunto è stato sottoposto dalla giurisprudenza più recente ad una più attenta valutazione.
Invero, ha sottolineato il Collegio, nel vigente ordinamento, alla risoluzione del rapporto di lavoro è riservata una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, nella quale è stato previsto un termine breve di decadenza (60 gg.) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenuta un valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento.
Se il lavoratore però non assolve tale onere – ha proseguito la Corte – al giudice è precluso conoscere la legittimità del licenziamento impugnato e, conseguentemente, non può condurre allo stesso nemmeno domande risarcitorie di diritto comune.
In altre parole, il giudice per riconoscere il risarcimento di un danno deve prima accertare l’inadempimento, quale presupposto a fondamento dello stesso, che nel caso in argomento sarebbe dato dal licenziamento (illegittimo). Orbene, essendo precluso al giudice di conoscere il licenziamento (illegittimo) per effetto dell’impugnazione tardiva, coerentemente non potrà riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore.
L’eventuale azione risarcitoria, in caso di decadenza, secondo le norme codicistiche – ha concluso la Corte – può essere esercitata solo in via residuale per far valere profili di illegittimità diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, mentre nell’area dei licenziamenti ricadenti nella normativa speciale, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento.
(Altalex, 3 maggio 2010. Nota di Gesuele Bellini)
Fonte: http://www.altalex.com/index.php?idu=143290&cmd5=ac265b1bc42e01dbe234216e9f6c78ee&idnot=50040