Accertamenti dattiloscopici: caratteristiche ed utilizzo delle impronte digitali nel procedimento penale

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Il codice di procedura penale, nella parte dedicata alle indagini, regola lo svolgimento delle attività a cui è preposta in questa fase la polizia giudiziaria (Libro V, Titolo IV).
Tra queste, una delle attività maggiormente note (anche a causa della visibilità mediatica e/o cinematografica), è l’analisi dattiloscopia relativa alla cristallizzazione, studio ed utilizzo delle impronte digitali, finalizzata ad incastrare l’autore di un reato.
Molte perplessità sono sorte nel tempo sul valore probatorio che possa assumere l’impronta digitale in un processo e su quale sia la disciplina che regola l’utilizzo dei rilievi dattiloscopici.
Motivo di doglianza, in particolare, è stato l’addebito formulato nei confronti degli indagati senza che fosse stato dato loro il diritto di replicare, di nominare un proprio consulente e d’intervenire nella corretta cristallizzazione della prova.
In pratica, i legali degli imputati condannati sulla scorta delle comparazioni delle impronte (a volte solo di sezioni d’impronta) si sono spesso lamentati della mancata applicazione dell’art. 360 del codice di procedura penale, che recita: “quando gli accertamenti (come i rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici) riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione, il pubblico ministero avvisa, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici”.
Il difensore e i consulenti, nei casi de quo, hanno quindi il diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve; pena l’inutilizzabilità della prova.
Atteso che la raccolta delle impronte viene eseguita frequentemente senza il rispetto di queste regole, nonché attraverso l’addebito unilaterale dell’illecito al reo da parte della Procura, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione a chiarire la questione.
Hanno stabilito gli Ermellini che le operazioni di polizia giudiziaria concernenti il prelievo di impronte digitali, in quanto atti irripetibili, sono acquisiti al fascicolo del dibattimento e possono essere valutati quale prova anche senza procedere a perizia.
Per ciò che concerne la comparazione delle impronte, la stessa, non richiedendo altro che accertamenti di dati obbiettivi, rientrerebbe non già nelle regole dell’art. 360 c. p. p. prima citate, bensì negli accertamenti previsti dall’art. 354 c. p. p.; detta norma attribuisce alla polizia il potere di raccogliere le impronte sul luogo del delitto e di curare e conservare le tracce e le cose pertinenti al reato, controllando che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell’intervento del Magistrato del Pubblico Ministero. Prevede inoltre che se vi sia pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il Pubblico Ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria debbano compiere in prima persona i necessari accertamenti e i rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose.
In conclusione l’attività dattiloscopica compartiva è un’attività che rientra di fatto nella mera “osservazione” e non richiedebbe specifiche attività tecniche.
Il prelievo di impronte digitali può essere assimilato, in sostanza, al prelievo di campioni di polvere da sparo (con “stub”, “tampone”, etc.) la quale, una volta svolta non è ripetibile, ma non per questo deve essere effettuata con le garanzie dell’art. 360 c. p. p., perché l’attività tecnica a cui fa riferimento detta norma è tuttalpiù quella successiva, dell’esame delle particelle prelevate.
Applicando queste regole al processo, si può asserire che la comparazione delle impronte prelevate con quelle già in possesso della polizia giudiziaria non richiede particolari cognizioni tecnico-scientifiche e si risolve in un mero accertamento di dati obiettivi (ai sensi dell’art. 354 cod. proc. pen.). Può quindi addivenirsi alla condanna del reo anche qualora colui che abbia svolto l’attività di comparazione sia unicamente sentito in dibattimento e riferisca in ordine alla medesima.
Tanto basta. Il Giudice non è tenuto a disporre alcuna perizia, potendosi attenere per la decisione unicamente alle emergenze esposte dal suddetto dichiarante (ex Multis: Cass. pen. Sez. V, 09-02-2010, n. 16959 [rv. 246872]).
Avv. Silvio Tolesino

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