In 10 anni la spesa degli italiani per mangiare fuori è aumentata di 4,9 mld

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Secondo il rapporto 2019 di Fipe, la  spesa per mangiare fuori è aumentata di 4,9 mld e si è assestata sugli 86 miliardi di euro nel cresce l’occupazione del 20%, cresce il numero delle imprese rispetto a un anno fa: 336 mila, di cui quasi una su tre gestita da donne e l’11,6% da cittadini stranieri, aumenta la spesa delle famiglie, +0,7% in termini reali, e si assesta sugli 86 miliardi di euro nel 2019. mentre quella in casa si è ridotta di 8,6 miliardi di euro nello stesso periodo di tempo, impennata anche per l’occupazione vi lavorano 1,2 milioni di addetti di cui il 52% donne,  in maggioranza giovani, in 10 anni è cresciuta del 20%.

Lino Enrico Stoppani presidente Fipe, afferma che il mondo della ristorazione è un grande asset economico e un patrimonio, anche culturale, del Paese, i dati parlano chiaro: con 46 miliardi di euro siamo la prima componente del valore aggiunto della filiera agroalimentare, continuiamo a crescere l’occupazione e contribuiamo alla tenuta dei consumi alimentari: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi, gli italiani hanno speso sempre di più per mangiare fuori casa, riducendo la spesa in casa, merito di un’offerta che cresce in segmentazione dei format commerciali, in qualità dell’offerta gastronomica e in professionalità.

I turisti che arrivano in Italia mettono bar e ristoranti tra le cose che maggiormente apprezzano del nostro Paese, non è un settore dove si vive di rendita, come dimostra l’altissimo turnover imprenditoriale. I tassi di mortalità delle imprese confermano che ascolto del mercato e innovazione sono processi fondamentali per il successo.

Gli  imprenditori risultano attenti alle nuove tendenze di mercato: sono in prima linea nella lotta allo spreco alimentare e molto sensibili al tema della sostenibilità ambientale che alla valorizzazione dei prodotti del territorio, come settore acquistiamo ogni anno 20 miliardi di euro di materie prime alimentari sia dall’industria che dall’agricoltura.

Dal rapporto 2019, si scopre che ogni giorno circa cinque milioni di persone, il 10,8% degli italiani, fa colazione in uno dei 148mila bar della penisola, altrettante ogni giorno pranzano fuori casa, poco meno di 10 milioni (18,5%) gli italiani che cenano al ristorante almeno due volte a settimana. 

Un vero e proprio esercito che nel 2018 ha speso, tra bar e ristoranti, 84,3 miliardi di euro, l’1,7% in più in termini reali rispetto all’anno precedente e nel 2019 ha fatto ancora meglio, arrivando complessivamente a spenderne 86 milioni.

La ciliegina sulla torta di un decennio che ha visto i consumi degli italiani spostarsi al di fuori delle mura domestiche: tra il 2008 e il 2018 l’incremento reale nel mondo della ristorazione è stato del 5,7%, pari a 4,9 miliardi di euro, a fronte di una riduzione di circa 8,6 miliardi di euro dei consumi alimentari in casa.

Cifra che nel 2019 è salita a 8,9 miliardi di euro, Una performance che vede il mercato italiano della ristorazione diventare il terzo più grande in Europa, dopo Gran Bretagna e Spagna e che ha ricadute positive sull’intera economia italiana, in particolare sulla filiera agroalimentare.

Ogni anno la ristorazione acquista prodotti alimentari per un totale di 20 miliardi di euro, creando valore aggiunto superiore ai 46 miliardi, il 34% del valore complessivo dell’intera filiera agro alimentare.

Ciò che attira in maniera sempre più marcata i consumatori all’interno dei ristoranti è la tradizione, il 50% degli intervistati da Fipe, cerca e trova un’ampia offerta di prodotti del territorio, preparati con ricette classiche, ma non solo, il 90,7% dei clienti confessa di essersi fatto tentare da piatti nuovi e mai provati ,il 60,5% ammette di andare al ristorante per affinare il palato, tutti, concordano, che è fondamentale sapere ciò che si mangia.

Il 68,1% dei clienti quando entra al ristorante, per prima cosa si informa sulla provenienza geografica dei prodotti, il 58,5% sui valori nutrizionali dei piatti e il 54,5% sull’origine e la storia di una ricetta, altro elemento che incide sulla scelta di un locale è la sua politica “green”.

Sette consumatori su dieci sostengono infatti che sia importante che i ristoranti operino in modo sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Il che significa, per il 37,7% degli avventori, che portino avanti politiche contro lo spreco alimentare dotandosi di doggy bag o rimpiattini, per il 36,7% che utilizzino materie prime provenienti da allevamenti sostenibili, mentre il 33,3% che limitino l’uso della plastica. meno di un italiano su tre rimane totalmente indifferente di fronte a questo tipo di politiche sostenibili.

Sempre più numerosi sono i casi di plagio all’estero dei marchi dei principali ristoranti e delle pasticcerie italiane più note. Per questo è stato creato il marchio di riconoscimento “ospitalità italiana”, attraverso il quale il nostro Paese certifica che si tratta di ristoranti che utilizzano prodotti italiani e si ispirano ad autentiche ricette italiane con una forte enfasi sulle cucine del territorio. La presenza è diffusa ovunque, dall’Europa all’Oceania: il Paese con il maggior numero di ristoranti certificati sono gli Stati Uniti d’America e la prima città è New York. In totale, sugli oltre 60mila ristoranti “all’italiana” presenti nel mondo, solo 2.200 hanno ottenuto questo importante riconoscimento.

336 mila le imprese della ristorazione attualmente attive, di queste 112.441 quelle gestite da donne ,56.606 imprese sono gestite da giovani under 35, 45mila le imprese che hanno soci o titolari stranieri, l’occupazione rimane stabile rispetto allo scorso anno (1,2 milioni di dipendenti di cui il 52% donne) ma sul lungo periodo mostra un’impennata notevole, soprattutto rispetto agli altri settori dell’economia nazionale.

Negli ultimi 10 anni i posti di lavoro, misurati in unità di lavoro standard, in bar e ristoranti sono cresciuti del 20%, a fronte di un calo dell’occupazione totale del 3,4%.

Il settore soffre di un elevato tasso di mortalità imprenditoriale: dopo un anno chiude il 25% dei ristoranti; dopo 3 anni abbassa la serranda un locale su due, dopo 5 anni la chiusura interessa il 57% di bar e ristoranti, il valore aggiunto per unità di lavoro è di 38.700 euro, il 41% più basso rispetto al dato complessivo dell’intera economia, negli ultimi 10 anni il valore aggiunto per ora lavorata è sceso di 9 punti percentuali.

La novità risiede invece nelle piaghe dell’abusivismo commerciale e della concorrenza sleale. Nei centri storici, nel corso degli ultimi 10 anni, si è impennato il numero di paninoteche, kebab e (finti) take away di ogni genere (+54,7%), mentre sono diminuiti i bar (-0,5%).

Crescono le attività senza spazi, senza personale, senza servizi, soprattutto, nei centri storici delle città più grandi, questo dipende da molti fattori; costi di locazione insostenibile, il servizio richiede personale e il personale costa, gli oneri di gestione, a cominciare dalla Tari, sono sempre più pesanti. La scorciatoia, attività senza servizio, senza spazi e con personale ridotto all’osso, favorita da politiche poco lungimiranti delle amministrazioni locali che consentono a tutti di fare tutto senza il rispetto del principio “stesso mercato, stesse regole” che per noi è alla base di una buona e sana concorrenza. La disparità di condizioni non genera solo concorrenza sleale, ma finisce per impoverire mercato, sicurezza dei consumatori e la qualità delle nostre città.

Alfredo Magnifico