Indagini bancarie buone per il fisco 
anche se c’è segreto istruttorio

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La mancanza dell’autorizzazione non invalida l’accertamento basato sui dati raccolti dalla Guardia di finanza
È valido l’accertamento fiscale basato sulle indagini effettuate sui conti bancari, anche se il procedimento penale a carico del contribuente è coperto da segreto istruttorio. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 4741 del 26 febbraio, ha respinto il ricorso di un mobilificio che aveva ricevuto un avviso di rettifica in materia di Iva conseguente ad attività istruttoria condotta sui conti bancari di un socio non amministratore della società.

La vicenda processuale
A discapito della prima decisione di merito favorevole al contribuente, la Commissione tributaria regionale ha confermato la validità di un atto impositivo rettificativo del volume di affari Iva di una società di persone, emesso a seguito di accertamenti della Guardia di finanza sui conti correnti bancari di pertinenza.
In particolare, i punti di dissertazione venuti a galla nella vicenda, e diversamente risolti nei tre gradi del giudizio, sostanzialmente riguardano:
• il preteso utilizzo illegittimo ai fini fiscali della documentazione bancaria acquisita nel corso di attività di polizia giudiziaria, per mancanza dell’autorizzazione preventiva del procuratore della Repubblica al rilascio delle copie della documentazione per effetto del segreto istruttorio che copre l’attività processuale penale
• l’illegittimo utilizzo della conoscenza della prova testimoniale, che avrebbe comportato violazione del diritto di difesa del contribuente.

La Commissione regionale ha accolto il gravame dell’ufficio, esternando le seguenti osservazioni.
Diversamente dal “travisamento” dei fatti risultante dalla precedente fase del giudizio, il secondo giudice afferma che non si è in presenza di un utilizzo di elementi acquisiti in sede penale e poi trasfusi nell’accertamento fiscale, bensì di una normale indagine svolta in sede amministrativa, le cui risultanze sono state anche trasmesse alla procura della Repubblica essendo emersi indizi di reato, il che significa che non occorreva alcuna autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, come invece preteso dalla ricorrente. Infatti, nel corso delle indagini condotte dalla polizia tributaria erano emersi una pluralità di elementi gravi, precisi e concordanti in merito a una “intensa” illecita attività finalizzata alla commissione di reati, con rilevanza sia penale in senso stretto sia penaltributaria (Dlgs 74/2000), ponendo in essere attività dolosa tendente artificiosamente a perpetrare rilevante evasione fiscale. Da tali indagini erano emersi riscontri di fatti gestionali posti in essere dalla società verificata che hanno disvelato condotte omissive e simulatorie atte a fare apparire, attraverso un’ingegnosa architettura di apparente regolarità fiscale, una situazione patrimoniale e reddituale del tutto diversa da quella reale.

Le risultanze delle indagini effettuate hanno avuto origine dalla procedura di controllo dei conti correnti bancari eseguiti presso un soggetto legittimato perché legato alla società da un rapporto qualificato, socio non amministratore (Cassazione 1452/2009, 27032/2007, 18421/2005), e sono state condotte in istruttoria con dovizia di riscontri e contestazioni rinvenibili nella redazione, dopo l’esecuzione di controlli incrociati, di un apposito prospetto delle schede clienti, allegato allo stesso processo verbale di constatazione, regolarmente notificato alla verificata a conclusione dei controlli.

Le acquisizioni testimoniali raccolte in sede investigativa non hanno conflitto con alcuna disposizione normativa costituzionale o di legge ordinaria (tanto meno con l’articolo 7 del Dlgs 546/1992, che, comunque, è posto a presidio dell’attività processuale non di quella amministrativa), posto che le stesse sono state raffrontate in quella sede dalla Guardia di finanza con le scritture contabili e la documentazione acquisita al fascicolo. Al riguardo, costituisce infatti principio consolidato quello secondo cui il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle Commissioni tributarie si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo e non implica l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione procedente e rese da “terzi”, e cioè da soggetti estranei rispetto al rapporto tra il contribuente-parte e l’erario; tali informazioni testimoniali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e devono pertanto essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi (Cassazione 903/2002, 8683/2002, 4423/2003, 21271/2008).

Cosicché l’ispezione condotta dai verificatori sulla contabilità della ricorrente fuga qualsiasi preteso vizio di legittimità circa l’utilizzazione ai fini fiscali delle dichiarazioni rese da terzi. Per conseguenza, dall’acquisizione e valutazione di convincenti elementi di riscontro derivante dall’esame della documentazione contabile ed extracontabile, quindi diversi dalle testimonianze, ne è derivata una inevitabile ricostruzione indiretta dei ricavi occulti presuntivamente conseguiti dalla società mediante vendite non documentate. In fattispecie similari, difatti, l’ufficio accertatore può fondare la rettifica dei maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, su “gravi incongruenze”, anche se poste al di fuori delle ipotesi espressamente previste dall’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, ossia su presunzioni “supersemplici”, non dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (articolo 2729 cc) (Cassazione 2876/2009, 16379/2008, 24532/2007, 26919/2006).

L’amministrazione finanziaria, quindi, nel rettificare i ricavi aziendali occultamente conseguiti, si è avvalsa legittimamente delle risultanze bancarie accertate presso terzi dalla Guardia di finanza (Cassazione 10148/2000, 15234/2001), in ciò abilitata dalle specifiche disposizioni normative contenute negli articoli 32, comma 1, n. 2), Dpr 600/1973, e 51, comma 2, n. 2), Dpr 633/1972 (normativa che riguarda specificamente lo sviluppo in campo fiscale degli accertamenti bancari eseguiti nell’ambito dei poteri di polizia giudiziaria).

Inoltre, è convincimento della Commissione del riesame (affermazione che segna il passaggio motivazionale essenziale della decisione) che, quand’anche l’asserzione del contribuente avesse fondamento, nell’attuale sistema del giudizio tributario non è rinvenibile una disposizione simile a quella posta nel giudizio penale dall’articolo 191 cpp, che sancisce espressamente il divieto di utilizzare prove acquisite in modo illecito o illegittimo quando queste risultano oggettivamente attendibili, come ben evidenziato dalla Corte di cassazione nella sentenza 4987/2003, allorché afferma che, dal momento che l’autorizzazione prevista dall’articolo 51, comma 2, n. 7), del Dpr 633/1972, attiene ai rapporti interni degli uffici e in materia tributaria non vige il principio (presente nel codice di procedura penale) della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, ben possono essere utilizzati ai fini dell’emissione di un avviso di accertamento (e nel successivo processo tributario) le copie dei conti bancari intrattenuti da una banca con il contribuente, acquisite dall’ufficio tributario presso l’istituto bancario in difetto della suddetta autorizzazione.

In altri termini, ove i dati e le notizie emersi in sede di attività di polizia giudiziaria fossero stati acquisiti senza il rispetto delle forme e dei modi previsti dalle norme in materia di accertamento (ad esempio, perquisizione effettuata senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica), non ne sarebbe in alcun modo preclusa l’utilizzazione, visto che si tratterebbe di vizi “coperti” dall’acquisizione in sede di indagini penali di dati successivamente pervenuti all’amministrazione finanziaria a seguito della trasmissione fatta dalla polizia giudiziaria, “copertura” che opererebbe indipendentemente dalla presenza o meno dell’autorizzazione alla trasmissione stessa (Cassazione 7791/2001, 3326/2009).

Decisione della Cassazione
Decidendo la vertenza, la Suprema corte respinge il ricorso della società e afferma il principio secondo cui il contribuente, laddove intenda far valere una incongruenza sulla valutazione dei fatti e delle circostanze operata dal giudice del merito, ha l’obbligo di indicare gli elementi e i conferenti punti della decisione e dell’atto impositivo impugnato a sostegno di tale assunto, non potendo risolversi la contestazione in un vizio squisitamente ermeneutico (nella specie, in relazione all’utilizzo di indagini finanziarie compiute in sede amministrativa o di polizia giudiziaria).

Uno dei punti contestati dal contribuente era il fatto che il procedimento penale a suo carico era coperto da segreto istruttorio, ma a tale obiezione la Corte di legittimità ha controbattuto affermando che, in realtà, il risultato utilizzato – come inequivocabilmente ha motivato il giudice del riesame – era quello basato su un’indagine amministrativa condotta dalla Guardia di finanza e, quindi, indipendentemente dal procedimento penale.

A tal fine, rafforzando un univoco indirizzo giurisprudenziale (Cassazione 3852/2001, 14058/2006, 22035/2006, 2450/2007), la Corte di legittimità ha argomentato che, in tema di accertamento, la necessità dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per la trasmissione di atti, documenti e notizie acquisite nell’ambito di un’indagine o un processo penale, disposta dall’articolo 63, comma 1, del Dpr 633/1972, il cui contenuto è stato riprodotto nell’articolo 33, comma 3, del Dpr 600/1973, è prevista a salvaguardia del segreto delle indagini penali (ex articolo 329 cpp) e non ha alcuna finalità di tutela nei confronti del contribuente (in tale contesto, è stato perfino ammesso – Cassazione 22119/2007 – che la Guardia di finanza possa procedere all’acquisizione ai fini fiscali di documenti che si trovi a detenere a seguito del dissequestro disposto dal giudice penale, senza che occorra alcuna autorizzazione, in quanto con il provvedimento di dissequestro l’autorità penale ha mostrato di non ritenere i documenti in questione utili all’indagine e non ricorre l’ipotesi, costituzionalmente protetta, di accesso al domicilio privato).

Le considerazioni esposte derivano dalle riferite disposizioni che assegnano alla Guardia di finanza il ruolo di cooperazione con gli uffici fiscali per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento tributario; organo investigativo che espleta analoga funzione di interesse pubblico allorché agisce anche in veste di polizia giudiziaria per il perseguimento dei reati fiscali. Nell’ambito di tale attività investigativa, le norme fiscali riconoscono così all’autorità giudiziaria penale il potere di derogare al segreto istruttorio, in vista dell’interesse a un sollecito e corretto accertamento tributario (Cassazione 22173/2008). Di conseguenza, l’eventuale trasmissione non autorizzata di atti coperti dal segreto istruttorio rileva solo nell’ambito del giudizio penale e – se può giustificare provvedimenti a carico del trasgressore – non inficia la valenza probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi (Cassazione 22555/2007, 28695/2005, 7208/2003). Ciò in quanto l’autorizzazione del procuratore della Repubblica è “rivolta alla tutela della segretezza delle indagini penali”, ma non comporta una limitazione o un condizionamento della capacità di difesa della parte privata (Cassazione 7208/2003, Corte costituzionale 51/1992).
Quanto sopra, diversamente dalle fattispecie previste per l’accesso ai fini fiscali dall’articolo 52, commi 2 e 3, del Dpr 633/1972 (trattasi degli accessi in locali diversi da quelli destinati dal contribuente all’esercizio dell’attività ovvero per procedere a perquisizioni personali o all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli, ecc.), per i quali non può prescindersi – pena l’invalidità delle operazioni effettuate – dalla prescritta autorizzazione del procuratore della Repubblica.

In tal modo, la Suprema corte ha confermato la sentenza di secondo grado sullo specifico punto.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/indagini-bancarie-buone-il-fisco-anche-se-ce-segreto-istruttorio