Perché è rischioso sottoscrivere titoli pubblici

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La crisi drammatica della Grecia sta comportando conseguenze importanti sull’intero panorama finanziario globale. D’altronde che la vicenda dei mutui subprime fosse solo l’inizio di una serie di scossoni nella finanza mondiale era stato largamente previsto, così come era stato previsto che, dato che a salvare le banche erano intervenuti gli stati, il prossimo obiettivo erano proprio i debiti pubblici delle nazioni più deboli. Detto questo sembra necessario sviluppare qualche ragionamento dal punto di vista del cittadino comune, del piccolo risparmiatore, del consumatore che non necessariamente deve essere un esegeta di Cds o di strumenti derivati di varia natura. Il problema di fondo è che quando si sottoscrive un titolo di debito pubblico non si fa altro che prestare dei soldi ad uno stato, italiano o estero, dietro la promessa della restituzione del capitale e il guadagno di interessi, periodici o meno. Ad esempio acquistando un Bot, un Btp o un CCt non si fa altro che imprestare danaro allo Stato italiano. Se si compra un titolo del tesoro americano invece si prestano soldi al governo americano e via seguitando. Nell’immaginario popolare, così come c’era il mito che le banche non potevano fallire (e poi è arrivata Lehman Brothers) resiste ancora più potente il mito che anche gli stati non possono fallire, specie quello in cui viviamo. Eppure i fallimenti degli stati sono un fenomeno ormai all’ordine del giorno, e i tanti risparmiatori bruciati dal default dell’Argentina di qualche anno fa ne sanno amaramente qualcosa. Gli stati per la verità falliscono da sempre (la Spagna sembra essere quella che nei secoli è fallita più spesso) e se falliscono chi ha prestato loro del danaro rischia di non rivederlo mai più indietro, o di rivederne molto poco (vedi la proposta dell’Argentina che sforbicia il debito di un buon 65%). Quindi lo Stato non dà molte più garanzie di un privato anzi presenta qualche complicazione in più. La complicazione più rilevante, a parere di chi scrive, è che uno Stato non ha una contabilità più o meno affidabile su cui ragionare rispetto alla sua capacità di pagare gli interessi e per valutarne la solidità patrimoniale e quindi la capacità di restituzione del danaro prestatogli. Provate, ad esempio, a leggere il bilancio dello Stato italiano, caso mai avete la buona ventura di poterne trovare una copia allegata alle varie leggi finanziarie approvate dal nostro Parlamento. E’un documento illeggibile e che soprattutto non applica i principi della contabilità di un privato ma principi tutti suoi, detti di contabilità pubblica. Principi che in pratica si basano sul procedimento amministrativo, sulla approvazione dei vari organi politici e non sulle regole di un bilancio di un’azienda normale. A parte questo questo tipo di bilancio è reso ancora più opaco dal fatto che uno Stato non ha come propria mission la produzione di profitti, ma il benessere della comunità e dalla notazione che i suoi amministratori non sono tecnici ma rappresentanti del popolo (se è una democrazia) la cui logica non è certo quella tipica di un amministratore delegato. Non solo. I bilanci pubblici possono essere influenzati, come è successo proprio alla Grecia, da fenomeni distorsivi o di vera e propria illiceità diffusa se la classe dirigente al potere non rispetta parametri morali ed etici accettabili. Tutto questo per dire che acquistare un titolo del debito pubblico italiano o straniero comporta dei rischi conoscitivi molto più accentuati rispetto a quelli, già alti necessari per l’acquisto di un titolo di debito di un’azienda privata. Con un’altra grave singolarità: quando un’azienda privata fallisce ci sono procedure di legge per cercare di recuperare quanto dovuto e punire i responsabili se quanto accaduto è frutto di condotte fraudolente. Quando fallisce uno Stato invece si apre un buco nero, dove non ci sono procedure né regole, dove le responsabilità non sono accertabili e dove soprattutto la priorità è il destino della collettività coinvolta e non certo quello del debitore che aveva prestato danaro.

Pietro Colagiovanni