Finanza. Un fondo non risolve la crisi

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di Stefano Micossi

L’idea di tassare il settore finanziario riscuote un successo crescente. Sembra un modo conveniente per accantonare le risorse per sostenere il costo della prossima crisi. Invece si crea una promessa implicita di salvataggio. Per limitare le perdite dei fallimenti bancari è meglio imporre ai supervisori di intervenire con adeguate azioni correttive non appena il capitale di una banca scende al di sotto di soglie prestabilite. E se non può essere ricapitalizzata, allora deve essere riorganizzata, direttamente dall’autorità di supervisione.
Da quando l’instabilità finanziaria è divenuta meno acuta, riscuote successo crescente tra i policy maker e l’opinione pubblica l’idea di far pagare al settore finanziario i costi di salvataggio sostenuti dai contribuenti.
TASSE SULLA FINANZA
La Francia e il Regno Unito hanno introdotto una tassa temporanea sui bonus dei manager del settore finanziario, il governo degli Stati Uniti ha proposto una legge che prevede una Financial Crisis Responsibility Fee per coprire i costi del programma Tarp. Si discute anche, tra gli esperti della materia, su come riformare la tassazione del settore finanziario, che è in media più leggera rispetto agli altri redditi di impresa e favorisce eccessivamente l’indebitamento rispetto al capitale proprio.
Tuttavia, un tributo in somma fissa per recuperare i costi passati non modifica gli incentivi del settore finanziario all’assunzione di rischi eccessivi. Inoltre, non è chiaro precisamente quali costi occorra recuperare: mentre i costi fiscali diretti per sostenere il settore finanziario ammontano mediamente a circa il 2,5-3 per cento del Pil nei paesi sviluppati (con picchi intorno al 4,5 per cento), l’impatto fiscale totale della crisi risulta molto più ampio, corrispondendo all’aumento totale atteso dei debiti pubblici ovvero, secondo stime attendibili, a circa il 40 per cento del Pil. Ancora più elevato è il costo totale sostenuto dall’economia – includendo le perdite cumulate di output e posti di lavoro e la conseguente distruzione di capitale materiale e immateriale – che secondo alcuni autori raggiungerebbe un multiplo del Pil annuale. (1)
Più recentemente, il dibattito ha cambiato binario. Tassare il settore finanziario è ora visto come un modo conveniente per accantonare risorse sufficienti per sostenere il costo della prossima crisi finanziaria: creando un resolution fund – e connesse procedure di risoluzione della crisi – il quale dovrebbe sostenere le perdite residue derivanti dal fallimento di un grande istituto, una volta azzerato il capitale e, presumibilmente, anche le pretese dei creditori, ad eccezione dei depositanti (su questo, alcune proposte sono ambigue, lasciando spazio almeno per qualche sgravio per i creditori). Una proposta di questo tipo è stata presentata dal Fmi ai leader del G20 in occasione della riunione a Washington in aprile. (2) Un’altra è stata recentemente adottata dal Comitato per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo. (3)
Queste proposte sono mal concepite e vanno respinte.
UN FONDO DA BOCCIARE
Due sono le obiezioni principali. La prima è abbastanza ovvia: qualsiasi fondo costituito ex-ante per pagare la crisi di un istituto finanziario crea una promessa implicita di salvataggio che prima o poi qualcuno cercherà di incassare. Se il fondo è pubblico, esso incoraggerà i beneficiari privati a comportarsi da free rider a danno del contribuente, come è avvenuto nella crisi recente; se è finanziato privatamente, gli imbroglioni tra i banchieri cercheranno di scaricare i costi dei propri comportamenti sui banchieri onesti. L’unico modo per evitare questo risultato indesiderabile è di escludere, in maniera credibile, qualsiasi sostegno in favore di azionisti e creditori di un istituto finanziario in caso di fallimento. Questi non dovrebbero nutrir dubbi sul fatto che nessuno andrà in loro soccorso: solo così avranno incentivi sufficientemente forti per controllare strettamente il management e l’assunzione dei rischi nelle banche possedute o con le quali entrano in relazioni di credito. La mancanza di ogni pietà, al riguardo, è la prima condizione per rimuovere la sindrome del “too big to fail” dai sistemi finanziari.
Se si accetta l’idea che azionisti e creditori non meritano alcun sostegno, il resolution fund diventa semplicemente un meccanismo di assicurazione sui depositi. I depositanti sono gli unici creditori nel sistema finanziario che meritano una se non totale, quantomeno ampia protezione contro gli errori dei loro banchieri. La fonte principale di instabilità sistemica nei sistemi finanziari è l’eccesso di indebitamento e il credito imprudente da parte degli istituti di deposito. Le quote per l’assicurazione dei depositi sono lo strumento appropriato per tassare le banche sia per la loro intrinseca rischiosità, sia per i rischi che possono scaricare sul resto del sistema. Tocca poi ai regolatori di assicurare che i banchieri non abusino dei privilegi connessi alla licenza bancaria assumendo rischi eccessivi con il denaro dei depositanti – che invece è precisamente dove i regolatori hanno clamorosamente fallito, aprendo le porte alla crisi finanziaria.
Ciò mi porta alla seconda obiezione all’idea di un resolution fund, spesso meno riconosciuta: la ragione per cui le perdite del settore bancario (e delle quasi-banche di Wall Street) sono divenute così ingenti nella recente crisi finanziaria è che i supervisori hanno chiuso entrambi gli occhi sui misfatti dei banchieri, per lasciarli competere con successo nei mercati internazionali, o più semplicemente perché ne erano stati “catturati”. Se i supervisori si comportassero in maniera appropriata, grandi perdite residue da parte di istituti in fallimento – una volta azzerati il capitale e i crediti diversi dai depositi – diventerebbero meno probabili. Il modo principale per limitare le perdite residue dei fallimenti bancari è di imporre ai supervisori di intervenire con adeguate azioni correttive tempestive, appena il capitale di una banca sotto la loro supervisione scende al di sotto di soglie prestabilite. Come appunto avviene negli Stati Uniti con la “prompt corrective action” della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic).
Se la banca non può essere ricapitalizzata, allora essa deve essere riorganizzata, venduta a pezzi o liquidata direttamente da parte dell’autorità di supervisione: qui è dove la possibilità di disporre di efficaci procedure di risoluzione delle crisi bancarie diventa cruciale.
In conclusione, il punto chiave da ritenere è che un’esposizione sconsiderata da parte della banche non è possibile in un sistema nel quale gli azionisti e i creditori sanno che non saranno salvati e non è permesso ai supervisori di “scommettere sulla risurrezione” delle istituzioni da loro controllate, ma piuttosto sono obbligati a richiamarle prontamente all’ordine quando queste iniziano a indebolirsi.
Nella costruzione di un sistema regolatorio forte e coerente per i mercati finanziari, l’idea di un resolution fund è, nel migliore dei casi, una distrazione, nel peggiore, una promessa di nuova instabilità finanziaria.

(1) Vedi A. G. Haldane, The 100 Billion Question, Bank of England, marzo 2010.
(2) A Fair and Substantial Contribution by the Financial Sector – Interim Report for the G-20, aprile 2010.
(3) Vedi la proposta rivista sulla legislazione Esma, Articolo 12d che istituisce un “Fondo di stabilità”.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001712.html