La strada stretta dei tagli di bilancio in Europa

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di Francesco Daveri

La febbre dei tagli di bilancio si sta diffondendo rapidamente in tutti i paesi europei. E’ un esperimento politico-sociale senza precedenti: l’Europa nel suo complesso riduce la spesa pubblica anche a fini sociali. Ma se i tagli di oggi non si traducono in riforme strutturali avranno solo effetti temporanei sulla spesa. Se invece diventano riforme strutturali, potrebbero essere meno recessivi di quanto temuto.

Come titola BusinessWeek, la febbre dei tagli di bilancio si sta diffondendo rapidamente in tutta Europa. La maggior parte dei paesi europei ha già annunciato un totale provvisorio di 120 miliardi di tagli ai loro bilanci pubblici per far fronte al rapido accumulo di debito pubblico, originato nel 2008-09 dalle risposte fiscali alla grande recessione dopo il fallimento di Lehman.

I TAGLI IN EUROPA: UN RIASSUNTO

Che dovesse esserci una fine delle politiche di espansione fiscale degli ultimi diciotto mesi era previsto. Per molti mesi, la frasetta sulla necessità del passaggio a una “exit strategy” ha sempre fatto capolino nei documenti ufficiali, ma non era mai stata associata a niente di operativo. Con la crisi greca sono emerse alcune falle nel disegno costituzionale dell’euro, i mercati finanziari hanno perso fiducia nell’euro e hanno cominciato a scommettere sull’eventualità di una fine dell’Unione. A quel punto, è diventato più urgente riportare i bilanci pubblici verso una situazione di normalità fiscale – con bassi deficit e rapporti debito-Pil in discesa – uscendo dall’emergenza in cui la crisi 2008-09 li ha fatti entrare. La novità del mese di maggio 2010 è che i piani di aggiustamento fiscale in discussione sui media e nelle aule dei Parlamenti di tutta Europa implicano una correzione molto più rapida degli squilibri fiscali accumulati durante la crisi.
La maggior parte dei tagli che sono stati messi in cantiere fino a questo momento riguardano i prossimi due anni (2011-12), il periodo di tempo su cui un impegno politico può essere preso sul serio. Si tratta soprattutto di tagli alla spesa pubblica. Si parla di riduzioni di spesa per 15 miliardi in Spagna, che si aggiungono a un impegno ancora più oneroso per altri 50 miliardi di correzione del bilancio preso solo nel febbraio 2010. Si parla di una riduzione di altri 30 miliardi in Grecia, che si aggiungono ad altri cinque piani analoghi intrapresi negli ultimi cinque mesi. Piani fiscali di entità assoluta inferiore (rispettivamente per 3 e 1 miliardo) sono stati avviati a Dublino e Lisbona. Anche in questi casi si tratta di un terzo e un secondo round di misure di tagli dei bilanci pubblici volti a correggere l’esplosione dei deficit pubblici in quei paesi. Questo per stare solo ai Pigs conclamati.
Ma anche paesi non ritenuti a rischio di default o con la necessità di accelerare le loro exit strategy, stanno varando i loro tagli. Il nuovo governo conservatore inglese di David Cameron ha approvato una riduzione della spesa pubblica di 7 miliardi di euro solo per il 2011. Il piano doveva essere anche più significativo. Ma poi, all’atto pratico, anche i conservatori inglesi hanno incontrato difficoltà ad attuare le riduzioni della spesa sociale che avevano sbandierato in campagna elettorale per distinguersi dai laburisti. E così la sanità è rimasta fuori dai tagli, come anche le scuole. In più, il governo inglese ha confermato il budget per la difesa e per gli aiuti pubblici allo sviluppo.
Il governo francese ha approvato tagli per 5 miliardi, con misure per altri 95 miliardi da discutere nelle settimane a venire. E anche il governo di Angela Merkel si è impegnato su un programma di austerità che implicherà tagli di spesa per 10 miliardi di euro l’anno fino al 2016. Il piano della signora Merkel farà cadere la scure soprattutto sui sussidi statali, compresi quelli ai disoccupati e altre forme di assistenza ai poveri. Ma la correzione del bilancio obbligherà anche a un rinvio nel tempo del progetto di riduzione delle imposte su cui la maggioranza di centro-destra (soprattutto nella componente liberale del ministro dell’Economia e leader del Partito liberaldemocratico Westermeier) ha vinto le elezioni tedesche. Il progetto è stato legato a un disegno di vincolare il deficit strutturale a non superare lo 0,35 per cento del Pil dal 2016 in poi.
È in questo quadro che sono maturati i 24 miliardi di riduzione di spesa (soprattutto sugli enti locali e sui dipendenti pubblici) e aumento delle entrate (attraverso un recupero di gettito dall’evasione fiscale e senza l’introduzione diretta di nuove tasse) che sono al centro del dibattito politico in Italia. La correzione del bilancio, se attuata nell’entità annunciata, dovrebbe ridurre il deficit pubblico al 4 per cento circa nel 2011 e al 3 per cento circa nel 2012, con due anni di anticipo rispetto a quanto programmato inizialmente. Malgrado Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti si siano elogiati vicendevolmente come “salvatori dell’euro” per aver contribuito a raggiungere un accordo sul pacchetto di salvataggi alla Grecia, non si può fare a meno di ricordare l’ammissione di Gianni Letta: “Stiamo riducendo la spesa pubblica per allontanare dall’Italia lo spettro del rischio Grecia”. Non è dunque solo il desiderio di imitare una moda europea che spinge il governo italiano a tagliare anche la nostra spesa pubblica.

I PROBABILI EFFETTI DEI TAGLI DI SPESA

Stiamo assistendo a un esperimento politico-sociale senza precedenti. Per la prima volta l’Europa nel suo complesso sta riducendo la spesa pubblica, che era sempre aumentata nei decenni precedenti soprattutto nella sua componente di trasferimenti a fini sociali: pensioni, assistenza alla disoccupazione e ai meno abbienti.
In molti paesi, i tagli di spesa hanno riguardato soprattutto gli stipendi del pubblico impiego e il mancato rinnovo dei contratti come anche la non riassunzione dei lavoratori a tempo determinato. La motivazione addotta è stata che esistevano (o esistono) ampi margini di spreco o di rendita nel settore pubblico. La riduzione degli stipendi dovrebbe quindi portare all’eliminazione degli sprechi senza pregiudicare l’offerta di servizi pubblici connessa con l’erogazione di questi redditi. Un’altra delle ragioni indicata a giustificazione della riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici è che questi hanno goduto – dopo tanti anni di vacche magre – di un trattamento privilegiato durante la crisi, data la relativa sicurezza del loro posto di lavoro rispetto ai loro colleghi del settore privato. Ma la sensazione è che i piani di riduzione della spesa siano solo all’inizio e che nei vari paesi si andrà oltre, verso le cosiddette “riforme” (delle pensioni, della sanità, dell’istruzione, dell’università) che potrebbero modificare le procedure e i meccanismi di formazione della spesa. Per ora tutto ciò è rinviato al futuro (con la parziale eccezione della Francia). Ma senza il passaggio dalla chiusura del rubinetto della spesa alle riforme è presumibile che gli attuali tagli di spesa sortiscano solo effetti temporanei e che quindi finiscano per rappresentare dei fuochi di paglia, magari forieri di conflitto sociale, ma privi di efficacia in termini di dinamica della spesa pubblica sul più lungo termine.
Il timore più frequente a fronte dei tagli di spesa è il loro potenziale effetto recessivo. In una fase in cui la ripresa dell’economia procede con gambe malferme, ridurre il reddito di una delle fonti di domanda stabile durante la crisi (cioè i dipendenti pubblici) potrebbe limitare ulteriormente la propensione a consumare delle famiglie (almeno delle famiglie dei dipendenti pubblici), propensione già messa a dura prova per i lavoratori privati dall’aumento dei tassi di disoccupazione sperimentato nel 2009. Da qui il temuto effetto recessivo.
Non è tuttavia necessario rassegnarci all’idea che riduzioni della spesa pubblica producano rilevanti effetti recessivi. Negli anni Ottanta, proprio in Irlanda e in Danimarca ampie riduzioni di spesa, dopo un breve periodo iniziale di contrazione dell’attività economica, hanno portato a una significativa crescita economica per un consistente numero di anni. Potrebbe accadere anche adesso, se la riduzione della spesa pubblica associata con le modifiche nella modalità di funzionamento dell’Unione riuscirà a scongiurare il rischio di un fallimento dell’euro e dell’Unione monetaria. È dalla fiducia nel futuro ancora più che dalle variazioni del reddito disponibile che dipende la crescita economica di più lungo periodo.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001740.html