Le vittime straniere della crisi italiana

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di Andrea Stuppini

Vanno letti con attenzione i dati Istat sulle forze lavoro relativi al 2009. Segnalano un aumento degli immigrati occupati nel nostro paese, dovuto presumibilmente al processo di regolarizzazione avviato a fine 2008. Indicano però anche un incremento dei disoccupati stranieri. Hanno solo sei mesi per trovare un nuovo lavoro. Scaduto il termine è probabile che molti decidano di tornare nel paese di origine. Quale sarà allora il destino dei contributi previdenziali versati? Rimarranno per lo più in Italia, nelle casse dell’Inps.
Come era prevedibile, la crisi economica fa sentire i suoi effetti negativi anche sull’occupazione dei lavoratori stranieri nel nostro paese.
I DATI ISTAT SULLE FORZE LAVORO
I dati della rilevazione delle forze lavoro Istat relativi al 2009 vanno letti con attenzione.
Segnalano un aumento degli occupati stranieri, passati da 1.750.000 nel 2008 a 1.898.000 nel 2009: l’incremento di 150mila unità è dovuto probabilmente al processo di regolarizzazione avvenuto nel dicembre 2008, che prevedeva appunto 150mila nuovi ingressi, con contratto di lavoro sottoscritto presumibilmente nel corso del 2009.
Contemporaneamente, però, i dati indicano anche un forte aumento degli stranieri in cerca di occupazione: dai 162mila del 2008 ai 239mila del 2009, ovvero 77mila disoccupati in più nell’arco di dodici mesi.
Questi stranieri si sono iscritti ai Centri per l’impiego per ottenere il permesso di soggiorno “per attesa occupazione”; hanno solo sei mesi di tempo per trovare un nuovo lavoro, in caso contrario diventeranno irregolari. Cosa che puntualmente sta già accadendo a molti di loro.
Non è quindi azzardato sostenere che tra il settembre 2008 e oggi, oltre novantamila lavoratori stranieri potrebbero aver perduto il lavoro: una quota cospicua dei nuovi disoccupati, vittime della crisi in Italia.
Fattori come la presenza massiccia in uno dei settori più colpiti, l’edilizia, la precarietà di molti rapporti di lavoro e l’obbligo per legge di iscriversi nei Centri per l’impiego possono spiegare perché gli immigrati (oggi il 7,5 per cento delle forze lavoro del paese) rappresentino oltre il 12 per cento delle persone in cerca di lavoro nel 2009.
CHE FINE FANNO I CONTRIBUTI
C’è però un altro aspetto importante che differenzia i lavoratori stranieri da quelli italiani: il destino dei contributi previdenziali versati.
Il minimo contributivo è costituito da venti anni di versamenti con il sistema retributivo oppure cinque anni nel sistema contributivo. Indubbiamente, quasi tutti gli immigrati rientrano in quest’ultima tipologia.
D’altra parte, la legge 189/2002, la cosiddetta Bossi-Fini, prevede che il lavoratore immigrato possa ricevere la pensione soltanto al compimento del sessantacinquesimo anno di età e non per anzianità lavorativa.
Se il lavoratore, trascorsi i sei mesi di ricerca di una nuova occupazione, prenderà atto che non c’è più prospettiva occupazionale in Italia, farà ritorno al paese di origine. E nel caso non abbia lavorato per almeno cinque anni e in assenza di un accordo di reciprocità tra il suo paese e l’Inps, i contributi da lui versati andranno perduti e resteranno in Italia.
L’accordo di reciprocità vige all’interno dell’Unione Europea, ma è stato sottoscritto con pochi altri paesi al di fuori della Comunità, tra questi il più rilevante è la Tunisia. Non è invece in vigore alcun accordo con molti paesi di origine degli immigrati, come Marocco, Albania, Ucraina, Cina, India e altri.
La conferma si potrà avere solo tra alcuni mesi, con i dati del saldo migratorio con l’estero, ma appare realistico stimare che almeno 20mila lavoratori, divenuti disoccupati, decidano di fare ritorno al paese di origine. Da questo calcolo sono già esclusi i lavoratori comunitari, quelli provenienti dalla Tunisia, dagli altri paesi minori con accordo di reciprocità e i possessori di carta di soggiorno.
Se consideriamo uno stipendio medio (dati Inps) di 12mila euro lordi l’anno, i contributi previdenziali versati dai lavoratori dipendenti ammontano a quasi 4mila euro l’anno; per una media di due anni e mezzo di permanenza in Italia, significano circa 10mila euro.
Se la stima di 20mila lavoratori rientrati sarà confermata, nel complesso si tratterà di circa 200 milioni di euro che questi lavoratori avranno perduto, a meno che non riescano in futuro a ottenere un nuovo rapporto di lavoro in Italia, e che l’Inps potrà legittimamente trattenere nel suo bilancio.
Per inciso, si tratta di una cifra analoga al costo annuo sostenuto per i circa 45mila stranieri che vivono negli alloggi di edilizia residenziale pubblica, e dei quali tanto si parla nelle regioni settentrionali.
Le novità introdotte dalla crisi nel lavoro immigrato sono quindi importanti e hanno ad esempio indotto le organizzazioni sindacali a chiedere una modifica legislativa e il ritorno da sei a dodici mesi per il permesso di attesa occupazione. Richieste finora rimaste inascoltate da parte del governo.
Peraltro, diverse sedi Inps segnalano casi di immigrati che, rientrati nel paese di origine anche dopo parecchi anni di lavoro in Italia, al compimento del sessantacinquesimo anno non hanno presentato domanda di riscossione della pensione, probabilmente per la mancata conoscenza della normativa.
È questo uno dei motivi per i quali i versamenti contributivi non possono essere considerati automaticamente come “salario differito”, quando si ragiona sull’apporto finanziario degli immigrati. In futuro, occorrerà una verifica puntuale della situazione al compimento dell’età pensionabile.
Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001762.html