Frodi carosello: le fatture false concorrono con la truffa aggravata

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Una “compresenza” possibile, non operando, nel rapporto tra i due illeciti penali, il principio di specialità
La falsa fatturazione può concorrere con la truffa ai danni dello Stato. È quanto emerge dalla lettura dell’articolata sentenza n. 27541 del 15 luglio, ove i giudici della Suprema corte, ancorché consapevoli del contrasto giurisprudenziale sul tema, hanno tuttavia dovuto confermare la decisione di secondo grado, più che per una condivisione della tesi sul concorso tra i due reati, perché si trattava di un principio che, nel caso specifico, era stato già affermato da una precedente sentenza di annullamento con rinvio dello stesso organo giurisdizionale. Principio che ha una sua forza di preclusività assimilabile a quella del giudicato proprio.

Il fatto
Si tratta delle accuse formulate nei confronti di alcuni imprenditori che, dopo aver emesso una serie di fatture fittizie per l’acquisto di carne, le avevano usate con delle società cartiere, mettendo in atto così una cosiddetta “frode carosello”. In modo sintetico, con tale locuzione si denominano quei tipi di frodi che avvengono utilizzando la particolare modalità di pagamento dell’Iva nel caso di operazioni intracomunitarie (non imponibili) – che non avviene al momento della cessione del bene da parte dell’operatore comunitario, ma allorché il cessionario italiano rivende il bene ad altro operatore nazionale – e che ha portato allo svilupparsi di frequenti condotte penalmente illecite dirette a non versare l’Iva dovuta.
Riguardo al complesso caso di specie, si rappresenta, in particolare, che alcune imprese, e conseguentemente i loro rappresentanti, avevano organizzato la tipica frode carosello sfruttando il particolare regime Iva sugli acquisti intracomunitari (articolo 38 e seguenti del Dl 331/1993):
a) cartolarmente acquistavano carne da fornitori italiani (fittizi) con regolare fattura detraendo la relativa Iva
b) questi ultimi acquistavano (sempre cartolarmente) la carne da imprese ubicate in Paesi Ue, ma non provvedevano al versamento dell’Iva una volta venduta la merce alle altre aziende italiane. In realtà, la carne era direttamente acquistata all’estero dalle imprese destinatarie delle fatture nazionali; venivano però interposte fittizie imprese italiane (società “cartiere” simulatamente create a tale scopo con produzione di documentazione fittizia) per non versare, da un lato, l’Iva dovuta in conseguenza della vendita e, dall’altro, per consentire la legittima detrazione della stessa Iva agli acquirenti. Entrambi i risultati si palesavano ovviamente raggiunti.

I responsabili della frode venivano perseguiti, tra l’altro, sia per i reati fiscali (emissione e utilizzazione di fatture false, reato previsto dagli articoli 2 e 8 del Dlgs 74/2000) sia per truffa aggravata ai danni dello Stato (articolo 640, comma 2, n. 1), codice penale).
La competente Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza del tribunale, decideva per la condanna degli imputati soltanto per il reato di fatture false perché, avevano motivato i giudici della Corte territoriale, questa fattispecie criminale era in rapporto di specialità (articolo 15 del codice penale, secondo cui quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale) con la truffa e come tale le pene non potevano essere cumulate, ma il secondo delitto doveva ritenersi assorbito nel primo.

Avverso tale giudicato la Procura della Repubblica presentava un primo ricorso alla Suprema corte, la quale con sentenza n. 6825/2007 annullava la decisione impugnata evidenziando che l’assoluzione era stata giustificata dal fatto che la truffa aggravata fosse stata in realtà commessa (e contestata) con la medesima condotta del reato tributario. Mancava quindi un elemento distintivo idoneo a differenziare le due condotte e a giustificare il concorso effettivo.
Secondo la Cassazione, dunque, le condotte erano distinte e quindi concorrenti perché i reati fiscali riguardavano l’emissione e l’utilizzazione delle fatture false, mentre la truffa concerneva l’interposizione delle società fittizie destinate ad apparire debitrici di Iva poi non versata all’Erario. Per questa ragione, la Cassazione annullava la sentenza impugnata per l’assoluzione per il secondo reato con rinvio della causa alla Corte d’appello affinché i giudici si uniformassero al principio stabilito. Infatti, nell’appello bis, la Corte del rinvio, preso atto di questa precisazione, riteneva quindi sussistente il concorso tra i due reati.
Nei confronti di questa nuova pronuncia gli imputati ricorrevano ulteriormente in Cassazione evidenziando anche l’insussistenza del concorso.

La nuova pronuncia della Cassazione
La Suprema corte, con la sentenza n. 27541/2010, si è nuovamente pronunciata sulla questione concernente il concorso tra il reato di truffa aggravata in danno dello Stato e i reati fiscali disciplinati dagli articoli 2 e 8 del Dlgs 74/2000 e, questa volta, fatta eccezione che per la posizione di uno soltanto dei ricorrenti, ha confermato il verdetto della sentenza gravata. “Né può farsi nel merito – ha motivato la sentenza in esame – questione di insussistenza di artifizi e raggiri giacché ai ricorrenti è attribuita sia l’emissione che l’utilizzazione di false fatture in vista della creazione e dell’impiego delle stesse ai fini dell’elusione fiscale” (va evidenziato che anche il delitto di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000 è di pericolo e di mera condotta, diversamente da quello di cui all’articolo 640 del codice penale che, come già rilevato, è reato di danno e di evento).

La Suprema corte ha dovuto tuttavia rilevare l’impossibilità di discutere sul principio di diritto affermato in precedenza nella sentenza di annullamento con rinvio, pur a fronte dell’evidenziato contrasto giurisprudenziale sul tema.
In particolare, il giudice di legittimità ha stabilito e confermato (rispetto alla prima pronuncia n. 6825/2007) che “é ammissibile il concorso tra il reato di truffa aggravata in danno dello Stato e quelli di emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non operando, nel rapporto tra i suddetti illeciti penali, il principio di specialità, la cui sussistenza va verificata sulla base del raffronto tra le norme incriminatrici, scomposte nei loro singoli elementi, e della individuazione dei beni giuridici protetti”.
Nel giudizio di merito, il reato di truffa era stato “configurato, […], in relazione alla interposizione di società cartiere destinate ad apparire, col mezzo della emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, debitrici di IVA in luogo delle società effettivamente destinatarie degli acquisti di merci, IVA che poi indebitamente non versavano all’erario, con conseguente danno patrimoniale a carico di questo”.
La Corte d’appello aveva ritenuto che la condotta suddetta sarebbe stata riconducibile sia ai reati consistenti nella frode fiscale sia al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato e aveva concluso, in applicazione del principio di specialità di cui all’articolo 15 del codice penale, nel senso che il secondo delitto doveva ritenersi assorbito nel primo. A tale conclusione l’organo giudicante perveniva sulla base delle seguenti osservazioni:
a) il reato di truffa era stato contestato con la stessa condotta del reato tributario specifico, ex articolo 4 della legge 516/1982
b) nel caso concreto difettava il quid pluris necessario a differenziare le due condotte criminose e ad avvalorare, pertanto, il concorso effettivo e non meramente apparente delle fattispecie menzionate.

Tale interpretazione è stata criticata dalla Corte di Cassazione, secondo cui la tesi dell’assorbimento potrebbe trovare applicazione per l’attività di utilizzazione delle fatture fittizie mediante indicazione del loro importo nelle dichiarazioni annuali, mentre si dovrebbe propendere per la conclusione opposta allorché si verta nella condotta dell’emittente, che risulterebbe del tutto svincolata dagli artifici e raggiri posti in essere per indurre in errore l’erario e cagionargli un danno.
Tale ultima affermazione, secondo l’assunto del giudice di legittimità, sarebbe supportata anche dal fatto che la condotta di emissione della documentazione falsa è attività meramente preparatoria a una successiva e solo eventuale evasione di imposta e, in virtù della disposizione contenuta nell’articolo 9 del Dlgs 74/2000, non sarebbe punibile a titolo di concorso nella condotta di utilizzazione.
Di talché, la posizione dell’emittente rimane cristallizzata esclusivamente all’attività di rilascio della falsa documentazione, non essendo necessario per l’integrazione del reato fiscale che l’evasione delle imposte e, cioè, il danno per l’erario, venga concretamente a realizzarsi (l’argomentazione trova recente conferma nella sentenza n. 26138/2010, nella quale si legge che “l’evasione di imposta non è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ma configura un elemento del dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell’agente, in quanto per integrare il reato è sufficiente che l’emittente di fatture si proponga il fine di consentire a terzi la evasione delle imposte sul reddito o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo consegua effettivamente la evasione”).
Quest’ultima considerazione è decisiva ai fini dell’esclusione della sovrapponibilità del comportamento relativo al reato citato rispetto a quello integrante il delitto di truffa, che, come ricordato, richiede il conseguimento di un ingiusto profitto con la causazione dell’altrui danno; diversa, infatti, è la natura dei reati in oggetto, di pericolo e di mera condotta la frode fiscale, di danno e di evento la truffa (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 35773/2001).

Per la Suprema corte, l’applicazione del principio di specialità dovrebbe essere esclusa anche quando il reato di truffa aggravata si ponga in rapporto con quello di utilizzazione di fatture fittizie. Infatti, non solo il conseguimento di un illecito risparmio di imposta è del tutto irrilevante per il perfezionarsi del delitto di frode fiscale, ma anche l’elemento soggettivo del primo reato, rappresentato, come si è ricordato, dal dolo specifico di evasione, non coincide con quello richiesto per la truffa, consistente nel dolo generico, e cioè nella coscienza e volontà di ingannare la vittima inducendola all’atto di disposizione patrimoniale, e di realizzare l’ingiusto profitto, proprio o altrui, a danno della vittima predetta. Per risolvere il dubbio sull’operatività del principio di specialità, il confronto andava effettuato tra le fattispecie astratte, non apparendo invece risolutivo il confronto tra beni giuridici tutelati (Cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 27/2000), posto che nel caso trattato il bene giuridico tutelato dalle due norme è lo stesso.

Le differenze strutturali delle suddette fattispecie sono ancora più evidenti, quando si dibatte in tema di tentativo: invero, quella disciplinata dal codice penale è punibile anche a titolo di delitto tentato, contrariamente alla frode fiscale, secondo quanto stabilito dall’articolo 6 del Dlgs 74/2000.

In sostanza, non e’ stato fatto buon governo da parte della Corte territoriale del principio per cui, in caso di illeciti fiscali connessi al mancato pagamento di determinate imposte, la ravvisabilità del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato non costituisce violazione del principio di specialità, qualora dalla dinamica dei fatti e sulla base di obiettivi elementi di riscontro si configuri una condotta truffaldina tipica e inequivoca desunta dalle particolari modalità esecutive della evasione fiscale.
Pertanto, il reato di frode fiscale, nelle due varianti dell’emissione e dell’utilizzazione di documentazione ideologicamente falsa, concorre con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato ogniqualvolta le condotte fraudolente ne determinino l’induzione in errore e sfocino nel concreto conseguimento di un illecito risparmio di imposta.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/frodi-carosello-le-fatture-false-concorrono-con-la-truffa-aggravata