Vino/ Gli influencer, tra crescita e sessismo

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(da: Aisllights). James Lawrence di Decanter li considera dei falliti dediti a praticare una forma di “nauseabonda auto-esaltazione”; per Jamie Goode si tratta quasi sempre di truffe e imbrogli; Lisse Garnett di The Spectator sostiene che il loro “manierato sex-appeal” impedisce di prendere sul serio ciò che scrivono sotto la foto, ritenendo un peccato che un professionista del vino con trent’anni di esperienza sia costretto a occupare “lo stesso palco di un ventenne che è abbastanza intelligente da conoscere il sistema, ma che non sa un cazzo della Borgogna”. Il punto – scrive Esther Mobley – è che i cosiddetti wine influencer non hanno le spalle larghe come i colleghi del settore moda e cosmetici, perché, rispetto a loro, si sono affacciati relativamente da poco nel mondo dei social.  C’è voluta la pandemia perché le cose cambiassero: i bevitori più giovani scarseggiano, le aziende vinicole erano molto in ritardo nello sviluppo degli e-commerce, e la chiusura di ristoranti e sale di degustazione ha fatto il resto.

 Secondo molti wine influencer le richieste settimanali di sponsorizzazione sono aumentate di quattro volte dall’inizio della pandemia, portando loro visibilità e critiche, oltre a “ondate di disprezzo a sfondo sessuale”. Un disprezzo a volte alimentato da altre donne, come nel caso della già citata Lisse Garnett, per la quale esibire il proprio corpo significa screditarsi come autorità in materia di vino: per i wine influencer “la svolta più importante nella comunicazione del vino consiste nell’averla trasformata in una ripresa softcore”. Ai sessismi si aggiunga la scarsa fiducia delle cantine, scettiche verso la loro capacità di incoraggiare le vendite. 

 Su Instagram un bicchiere di vino assomiglia praticamente a tutti gli altri e anche una bottiglia dall’aspetto peculiare non avrà mai la stessa specificità estetica di un piatto di cibo colorato e appetitoso.

 Non tutti però la pensano allo stesso modo. Per agguantare lo sfuggente mondo dei millennial la Frank Family Vineyards, a Napa, ha puntato da anni su questi nuovi professionisti, e così anche la società di marketing del vino Colangelo & Partners di San Francisco. La bontà del modello di vendite fondato sul connubio tra Instagram e wine influencer, in effetti, sembra confermata dai numeri: secondo uno studio del Georgia Institute of Technology i post che includono il volto di una persona hanno il 38 per cento di probabilità in più di ricevere Mi piace e il 32 per cento di probabilità in più di ricevere commenti.

 Da parte dei produttori, però, non c’è solo lungimiranza: i wine influencer, fatte salve le consuete eccezioni, hanno scarso potere contrattuale; in altre parole, costano poco.

 “Pensa alla creazione di un servizio fotografico, a quanto costano le modelle, il guardaroba, la fotografia il montaggio: sono migliaia di dollari – ha detto Gino Colangelo – e poi pensa agli influencer. Gli dai 300 dollari e una bottiglia di vino.” Quella tra produttori e wine influencer è insomma una “fragile simbiosi” priva di ogni certezza, anche economica, e dove basta il cambio di un algoritmo a vanificare mesi di lavoro. La loro strada è ancora tutta in salita,