Gli italiani sono i più impoveriti dall’inflazione tra i Paesi Ocse

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Alfredo Magnifico,

L’Employment Outlook 2023,ha registrato il calo dei salari reali, in Italia, più̀ forte tra le principali economie: dalla fine del 2022 sono scesi del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia.

L’Italia è il Paese Ocse in cui le retribuzioni dei lavoratori hanno perso maggiore potere d’acquisto, la metà dei dipendenti ha il contratto scaduto da oltre due anni e poiché non esiste il salario minimo, nonostante la frenata delle buste paga, siamo tra i Paesi che meno hanno protestato contro il caro vita.

L’Employment Outlook 2023 dell’Ocse, ha certificato il rimbalzo del mercato del lavoro dopo il Covid-19, con una perdita di slancio tra 2022 e inizio 2023 in un generale contesto di rallentamento economico.

L’occupazione è aumentata nell’ultimo anno, con un incremento dell’1,7% a maggio 2023 rispetto a maggio 2022, anche se il tasso di occupazione italiano rimane ben al di sotto della media Ocse: 61% contro 69,9%.

L’aggressione russa contro l’Ucraina ha contribuito all’impennata dell’inflazione, che non è stata accompagnata da una corrispondente crescita dei salari nominali.

I salari reali sono diminuiti nei Paesi Ocse, in media del 3,8% in un anno, l’Italia è il Paese che ha registrato il calo più forte, dalla fine del 2022, sono scesi del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia.

I salari contrattuali sono cresciuti nominalmente meno che in Francia o in Germania, questo fattore si innesta in una economia debole, come quella italiana, in cui la produttività è cresciuta meno e gli spazi per gli aumenti salariali sono più bassi.

Laddove esistono, i salari minimi in media hanno tenuto meglio il passo con l’inflazione, i dati dicono che sono aumentati del 30% del valore nominale negli ultimi due anni e mezzo, leggermente sopra il +24% dell’inflazione e rispetto alla contrattazione collettiva, i salari minimi sono stati in grado di più di tenere il passo con l’inflazione

Il mix salario minimo-contrattazione collettiva può coesistere, come dimostrano molti Paesi, oggi, la situazione è di profonda disuguaglianza: da un lato abbiamo i contratti rinnovati, indicizzati ai prezzi al consumo, che proteggono bene alcuni lavoratori, e poi fuori c’è il deserto dei tartari e si salvi chi può.

In Italia, i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6% solo nel 2022, continuando a perdere valore nel 2023, contrariamente ad altri Paesi che hanno rinnovi contrattuali più brevi, da noi i contratti collettivi vengono rinnovati ogni tre anni, con un gap di tempo più lungo, rendendo ancora più difficile che i salari stiano al passo con la crescita dei prezzi.

Il 50% dei lavoratori è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni, rischiando di prolungare la perdita di potere d’acquisto per molti lavoratori.

Si tratta di un calo particolarmente significativo se si considera che, a differenza di altri Paesi, la contrattazione collettiva copre, in teoria, tutti i lavoratori dipendenti. Secondo Ocse in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023, praticamente quasi la metà rispetto all’inflazione che dovrebbe attestarsi al 6,4%.

Tutto questo sta avvenendo in un contesto di relativa «pace sociale» rispetto alle proteste corpose e rumorose a cui si è assistito in altri Paesi, dalla Francia al Regno Unito, nel report, l’Ocse dedica una parte proprio alle giornate di lavoro perse per via di mobilitazioni e proteste in difesa dei salari.

In Italia, a parte gli scioperi generali contro la legge di bilancio e qualche fermo di categorie di lavoratori, non si è scesi in piazza per chiedere rinnovi dei contratti e aumenti di stipendio.

In Norvegia, ad aprile, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2% dei salari nel settore manifatturiero.

Alfredo Magnifico