È stato presentato a New York il nuovo rapporto ONU su Lo Stato della Sicurezza Alimentare e della Nutrizione nel Mondo (SOFI), frutto della collaborazione di FAO, IFAD, OMS, UNICEF e WFP. Uno studio che fornisce una stima aggiornata sul numero di persone che soffrono la fame nel mondo, su rachitismo e deperimento nei bambini, nonché sull’obesità.
Si tratta di una stima importante relativa al progresso verso l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile Fame Zero.
Obiettivi che, stando proprio ai dati di questo rapporto, sembrano
diventare sempre più difficili da raggiungere, poiché dal 2015 in poi,
dopo decenni di costante declino, la tendenza si è invertita e il numero
di persone che soffrono la fame è tornato (pur se lentamente) ad
aumentare. Più di 820 milioni di persone nel mondo hanno sofferto la
fame nel 2018 e, se si considerano anche coloro che sperimentano
condizioni di insicurezza alimentare, si stima che oltre 2 miliardi di
persone non abbiano accesso regolare a cibo sicuro, nutriente e
sufficiente. Numeri che comprendono l’8% della popolazione del Nord
America e dell’Europa.
Le
cause, secondo l’ONU, sono da ricercare nel sistema economico: la fame è
aumentata in molti paesi in cui l’economia ha rallentato, soprattutto
nei paesi a medio reddito. Inoltre, le crisi economiche aggravano quelle
alimentari causate da guerre e shock climatici.
Di fronte a questo quadro allarmante, Carlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food e ambasciatore del programma Fame Zero per la FAO,
commenta: «Per il quarto anno di seguito il rapporto evidenzia una
situazione in peggioramento, il che significa che siamo in presenza di
una tendenza. Sembra incredibile che nel 2019 l’homo sapiens sia ancora
alla prese con la lotta contro la fame, e ancor più incredibile è
constatare che stiamo perdendo! Slow Food ormai da molti anni è
impegnata in questa lotta: il quadro che emerge oggi dalla nuova
edizione del rapporto ONU ci chiama a un ulteriore impegno, con forza e
urgenza. Il rapporto ci dice anche che il problema non è la quantità di
cibo globalmente a disposizione, come sostengono le multinazionali
dell’agro-industria, ma la sua disponibilità per chi è in condizioni
economiche e sociali svantaggiate. È un tema di diritti negati e non di
incremento della produzione. Servono quindi politiche coraggiose dei
governi di tutto il Pianeta, per il contrasto alla povertà, alle
disuguaglianze e all’emarginazione, che adottino e promuovano un modello
di produzione alimentare agro-ecologico, inclusivo e socialmente equo».
Riguardo al continente ancora oggi più colpito dalla piaga della fame, l’Africa, Edie Mukiibi, agronomo ugandese e membro del Comitato Esecutivo Internazionale di Slow Food,
aggiunge: «I 3207 orti agroecologici che Slow Food ha creato in 35
Paesi africani costituiscono oggi un piccolo ma significativo contributo
al problema della malnutrizione, un modello positivo di partecipazione e
di organizzazione dal basso. E soprattutto un modello facilmente
replicabile: noi, con le nostre forze, (relativamente scarse rispetto a
quelle delle istituzioni e dei governi) siamo riusciti a realizzare
oltre 3 mila orti. E ognuno di questi orti coinvolge circa 120 persone
in maniera continuativa, contribuendo in molti casi a evitare che questi
individui vadano a far lievitare le già drammatiche cifre che oggi
l’ONU ci ha consegnato».
Attraverso
il progetto degli orti Slow Food in Africa sono stati realizzati finora
1585 progetti nelle scuole e 1622 progetti nelle comunità, per un
totale di 3207 orti attivi. Essi coinvolgono circa 305.000 studenti (la metà sono donne) e oltre 40.000 adulti (in questo caso le donne sono il 72%). Questi
orti sono un chiaro segno che gli africani sono impegnati ad affrontare
in prima persona i problemi di fame e malnutrizione.
Ancora
Edie Mukiibi: «Gli orti Slow Food non sono solo fonti di cibo per le
comunità, ma anche strumenti educativi e culturali per tutti i soggetti
coinvolti. Aumentano la quantità e la varietà di cibo fresco disponibile
per l’autoconsumo, diminuendo la dipendenza dal mercato per i semi e le
integrazioni della dieta. La
riscoperta degli ecotipi vegetali locali e la reintroduzione della loro
coltivazione – più adattabile all’ecosistema locale – può inoltre
essere fondamentale per assicurare la resilienza delle comunità che
devono affrontare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Un
sistema alimentare che si basa su un’ampia varietà di piante coltivate
infatti è più forte, non solo perché permette di superare i problemi che
in ogni stagione possono colpire alcune piante, ma garantisce anche
maggiore salubrità della dieta e del contesto ambientale in cui l’orto è
realizzato».