Impugnabilità dei verbali di conciliazione in sede sindacale

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Il Tribunale di Roma con la sentenza n. 4354 dell’8 maggio 2019, ha affermato che rinunce e transazioni contenute in un verbale di conciliazione, sottoscritto in sede sindacale, sono impugnabili se il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro non disciplina l’istituto della conciliazione e la sua procedura.

La sentenza ha affermato che la conciliazione in sede sindacale che, secondo la previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., “gode” della inoppugnabilità a determinate condizioni e può essere impugnata entro i 180 giorni successivi come qualsiasi altra transazione o rinuncia avvenuta al di fuori degli articoli 410, 411, 412-ter e 412-quater c.p.c. , dell’art. 185 cpc (sede giudiziale) e con alcune particolarità, la conciliazione ex art. 11 del D.L.vo n. 124/2004 (c.d. “conciliazione monocratica”),tra queste rientrano le conciliazioni avvenute avanti ad un organo di certificazione previsto dall’art. 75 del D.L. vo n. 276/2003.

La sentenza stabilisce che in mancanza di una disciplina specifica nel contratto collettivo finalizzata alla conciliazione, ed in carenza di una effettiva assistenza fornita al lavoratore, il contenuto del verbale può essere impugnato.

Il ragionamento del giudice parte dal contenuto dell’art. 412-ter dove si afferma che “conciliazione e arbitrato nelle materie di cui all’art. 409, possono essere svolti presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”: questa norma è da mettere in diretta correlazione con l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. che rende inoppugnabili le transazioni e le rinunce avvenute.

Il verbale, seppur sottoscritto dal lavoratore, può essere impugnato entro i sei mesi successivi alla stipula dell’atto, se il CCNL di riferimento non regolamenta la procedura di conciliazione, sono molti i settori e i comparti dove tale procedura non è esplicitata, in quanto, su questa materia non è consentita alcuna interpretazione “per analogia” o “ultra legem”, atteso che la inoppugnabilità relativa alle conciliazioni ha carattere eccezionale ed è, espressamente, riservata, alle transazioni ed alle rinunce intervenute con le modalità richiamate dal comma 4 dell’art. 2113 c.c.

Il giudice ha sottolineato un altro principio: l’“effettiva assistenza” che il rappresentante sindacale deve fornire al lavoratore.

Il sindacalista non può limitarsi a leggere il verbale, ma deve essere a conoscenza della intera vicenda, deve “soppesare” con il lavoratore costi e vantaggi correlati alla sottoscrizione, fornendo tutti gli elementi utili a far sì che l’interessato sia pienamente consapevole delle conseguenze legate alla conciliazione, la “piena consapevolezza”, del resto, è presente in diverse sentenze che la Corte di Cassazione ha dedicato all’argomento.

La decisione del Tribunale di Roma, è limitata al caso concreto ed è suscettibile di impugnativa ed è sostanzialmente, “solitaria” però, focalizza l’attenzione su alcune questioni che, se riprese in altre decisioni, potrebbero “cambiare” le modalità conciliative “in sede sindacale” che non si inquadrano nel dettato normativo.

La contrattazione collettiva raramente stabilisce modalità procedurali e, spesso  le conciliazioni risultano già scritte in tutti i contenuti (a volte con elementi estranei o superflui alla controversia) vengono sottoposte ai lavoratori interessati, davanti al conciliatore sindacale che limita la propria parte ad una funzione prettamente “notarile” chiedendo all’interessato se è d’accordo, e a prescindere dalla decisione del Tribunale di Roma, questo non va bene come, non vanno bene neanche le sottoscrizioni avanti alla commissione (sottocommissione) di conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro ove l’organo collegiale (ci sono anche i rappresentanti delle parti sociali), attraverso chi lo presiede, si limita, soltanto, a leggere il verbale e a chiedere se si è d’accordo.

Molte volte, tenuto anche conto dei soggetti può essere sufficiente la mera lettura e la domanda di rito (siete d’accordo) ma altre volte l’interessato si trova in una condizione di soggezione materiale o psicologica e un comportamento attivo e di assistenza, pur nel rispetto della terzietà, appare importante e decisivo.

Se il principio della procedura di conciliazione, scritta nel contratto collettivo, dovesse “prendere piede”, probabilmente, assisteremmo ad un maggior ricorso alla conciliazione avanti alla commissione provinciale istituita ex art. 410 cpc, a scapito di quella sindacale.

Se il principio della “effettiva assistenza” dovesse essere oggetto di una verifica precisa e puntuale da parte dei giudici di merito, il risultato sarebbe soltanto uno: le conciliazioni in sede sindacale, correrebbero il rischio di essere impugnate entro i “canonici” 180 giorni e tutto questo potrebbe portare ad una sostanziale instabilità dell’istituto conciliativo.  Alfredo Magnifico

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