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Scadenze fiscali e proroghe

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Il Governo proroga le scadenze fiscali che intercorrono tra l’1 e il 20 del mese, rimandandole a giorno 20. Tuttavia, rimane il 5 agosto il termine ultimo per gli studi di settore. Tempo di ferie: le aziende potrebbero trovarsi in difficoltà nel rispettare le previste e imminenti scadenze fiscali, ragion per cui – come di consueto – in questo periodo da almeno quattro anni, le scadenze che intercorrono tra i giorni 1 e 19 agosto saranno prorogate. La conferma viene dal decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, in Gazzetta Ufficiale dal 29 luglio. Il nuovo termine per tutti i versamenti in scadenza, compresi i pagamenti Inps, premi Inail e contributi Enpals (lavoratori dello spettacolo), sarà il 20 Agosto. Rimandati anche gli adempimenti fiscali e previdenziali da dichiarare con modello F24, la cui proroga consentirà un ritardo di quattro giorni rispetto alla data prevista (16 agosto) senza alcuna maggiorazione. Inoltre, lo spostamento al 20 Agosto riguarda anche le rate di Unico, che scadono il 2 del prossimo mese. A non beneficiare della proroga saranno invece i contribuenti soggetti a studi di settore per i versamenti in saldo 2009 ed acconto 2010, e che pagano le somme di Unico con la maggiorazione dello 0,4%: per loro rimane fissato il termine del 5 Agosto. Importante ricordare che il termine riguarda quei contribuenti interessati dagli studi di settore tenuti ala dichiarazione unificata con modello Unico 2010, che non abbiano effettuato i versamenti entro il 6 luglio.

di Alessandro Vinciarelli

Imprese dell’Editoria: IES entro il 30 settembre

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Questi i termini per presentare l’Informativa Economica di Sistema cui sono obbligati gli operatori dei settori Editoria e Radiodiffusione sonora e televisiva. C’è tempo fino al 30 settembre per presentare l’Informativa Economica di Sistema, la dichiarazione annuale obbligatoria per tutti gli operatori del settore della Comunicazione su stampa quotidiana e periodica, editoria annuaristica (anche elettronica e su Internet), agenzia di stampa a carattere nazionale, diffusione di servizi di media audiovisivi, diffusione radiofonica, concessionarie di pubblicità. Un’informativa necessaria all’AGCOM per verificare le posizioni dominanti in ambito radiotelevisivo ed editoriale e l’aggiornamento della base statistica degli operatori di comunicazione. L’invio dei modelli dovrà avvenire in modalità telematica mediante l’utilizzo delle propria casella di posta elettronica certificata all’indirizzo ies@cert.agcom.it. È sufficiente, una volta compilati tutti i campi, cliccare sul tasto “Invia via Email” presente sul fondo della pagina del modello telematico (istruzioni). Quest’ultimo è disponibile in formato pdf ed è articolato in due serie: Base e Ridotta, il primo è riservato ha chi abbia indicato nell’ultimo bilancio d’esercizio ricavi totali relativi alle vendite di beni e alle prestazioni di servizi superiori ad 1 milione di euro, il secondo minori a tale cifra. È possibile utilizzare anche la posta elettronica non certificata, se non se ne ha a disposizione una, però non sarà possibile ottenere una “ricevuta” valida legalmente che attestati l’avvenuta spedizione della IES. Per quei soggetti che ancora non hanno attiva una casella di posta elettronica certificata potranno utilizzare la posta elettronica tradizionale, ma non potranno ottenere una “ricevuta” valida legalmente quale attestato dell’avvenuta spedizione della IES.

di Noemi Ricci

PEC: Brunetta firma intesa con Rete Imprese Italia

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La Posta Elettronica Certificata gode di una diffusione sempre crescente nel nostro paese ed il protocollo d’intesa con Rete Imprese Italia potrebbe aumentare la domanda in modo esponenziale. A tre mesi dal PEC-Day, giorno in cui ha preso vita la posta elettronica certificata, il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione Renato Brunetta ha illustrato nel corso di una conferenza stampa gli aggiornamenti sul numero di PEC attivate da cittadini, imprese, professionisti e Pubbliche amministrazioni, oltre ad annunciare il Protocollo d’intesa siglato con Rete Imprese Italia. I dati raccolti dal DigiPA mostrano numeri in costante progressione: ad oggi i professionisti in regola sono più di 1 milione (oltre il 50% del totale) mentre più di 400.000 aziende risultano già dotate di almeno una casella di Posta Elettronica Certificata. Le PA centrali e locali dotate di PEC sono 11.000, per un totale di 18.250 caselle attivate.

I cittadini che hanno richiesto la procedura di attivazione attraverso il portale postacertificata.gov.it, sono ben 330.418; oltre la metà di questi sono già in possesso di un indirizzo personale e certificato. Se la domanda continuerà su questa linea, entro fine 2010 saranno 6 milioni le PEC attivate, tra aziende, professionisti e cittadini, a fronte di almeno 25.000 PEC attive nella Pubblica amministrazione.Il protocollo d’intesa siglato con Rete Imprese Italia punta ad aumentare la domanda in modo esponenziale, portando l’utilizzo della Posta Elettronica Certificata nella comunicazioni tra le PA e tutti i suoi associati (oltre 2,5 milioni di imprese). Rete Imprese Italia dovrà quindi assicurarsi che ogni suo associato sia dotato di PEC e la utilizzi obbligatoriamente per le comunicazioni con la Pubblica Amministrazione. Il documento, firmato dai vertici di tutte le associazioni di categoria, prevede inoltre tutta una serie di interventi mirati a sviluppare l’innovazione digitale nel settore delle piccole e medie imprese, allo scopo di incrementare l’accessibilità dei sistemi di e-gov e facilitare le relazioni amministrative con i cittadini.

di Tullio Matteo Fanti

Errani: federalismo fiscale è fondamentale

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‘Vogliamo l’applicazione in tutte le sue parti della legge 42 sul federalismo fiscale per noi fondamentale per l’innovazione della pubblica amministrazione, e per la qualita’ e l’efficienza dei servizi da erogare ai cittadini”. Così Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, al termine della Conferenza delle Regioni del 29 luglio. ”Per fare questo -ha detto Errani – occorre definire i costi standard e i livelli essenziali di assistenza (Lea) e i livelli essenziali di prestazione (Lep). I cittadini con il federalismo fiscale devono sapere quali e quanti servizi devono essere erogati dalle diverse amministrazioni; il governo deve assolutamente concordare con noi la definizione di Lep e Lea.
”Sui costi standard – ha sottolineato Errani – e’ bene che si superino le semplificazioni e i messaggi di propaganda che sono passati in questi mesi: ricordiamo che l’Italia e’ agli ultimi posti nei dati Ocse per spesa sanitaria”.
Constatazione espressa il 28 luglio anche nel corso dell’audizione della Conferenza delle Regioni alla Commissione parlamentare per l’Attuazione del federalismo fiscale. Errani ha espresso forti perplessità sulla considerazione del Governo che la spesa degli enti territoriali, in base a quanto si evince dalla relazione sul federalismo fiscale, siano maggiori della spesa discrezionale dello Stato.
”A noi risulta – ha spiegato Errani – che la spesa discrezionale dello Stato non sia di 84 miliardi bensi’ di 195 (dati di contabilita’ pubblica) contro quella degli enti territoriali che sarebbe di 176 miliardi. E’ per questo che noi non condividiamo i numeri fatti dal governo, il federalismo fiscale cosi’ per noi e’ un albero storto. Si deve rientrare pienamente nel percorso e nello spirito della legge 42 e riattivare quella collaborazione che la stessa legge sancisce”.
Errani e’ poi tornato a parlare delle risorse relative alle competenze trasferite, in base alla Bassanini, alle Regioni: ”quelle risorse – ha ricordato – errano bloccate al ’99 con una perdita di valore, a fronte dell’inflazione, del 25,5%. Le regioni non hanno trasferimenti; le nostre fonti di finanziamento sono la Sanita’ e appunto le risorse sulle competenze”. Secondo Errani con la manovra si tagliano quelle risorse mettendo in discussione una ‘gamba’ della legge 42.
Errani ha puntualizzato anche l’aspetto invalidità e ha fatto presente che se un aumento della spesa in quest’ambito c’e’ stata non e’ repentina, come sostenuto dal governo ma si sarebbe passati da 6 a 16 miliardi in diciannove anni. Errani ha poi ricordato che le regioni hanno responsabilita’ in materia dal 2003 e che fino al 2005 hanno dovuto smaltire il lavoro arretrato che inizialmente svolgevano insieme al ministero dell’Economia e successivamente quest’ultimo lo ha ceduto all’Inps. ”Se sono stati – ha detto Errani – assegni sbagliati abbiamo sempre sostenuto che condividiamo pienamente che si debba intervenire. Voglio pero’ ricordare che oltre il 70% dei contenziosi attivati dall’Inps sono stati persi con costi giganteschi”. Errani ha quindi ribadito che le regioni sono disposte a verifiche puntuali senza scaricare inadempienze di cui non sono responsabili.

Fonte: http://www.regioni.it/newsletter/newsletter.asp?newsletter_data=2010-07-29&newsletter_numero=1629#art1

E Bruxelles mette il tappo al vino

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di Stefano Castriota e Marco Delmastro

In un periodo di drammatiche turbolenze, l’Europa cerca di muoversi verso regole di spesa più rigorose e controlli più efficienti ma, purtroppo, continua a impiegare le proprie risorse in modo inutile, se non dannoso. L’agricoltura, in particolare, rimane un settore in cui gli interventi comunitari sembrano spesso il frutto di pressioni lobbistiche piuttosto che di misure finalizzate ad aumentare l’efficienza.

UN REGOLAMENTO PER IL VINO

Il regolamento Ce 479/2008 relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo persegue l’ambizioso obiettivo di ridurre gli sprechi e uniformare il mercato europeo del vino, rendendolo più efficiente, trasparente e competitivo. (1)
Le misure intraprese sono molteplici, alcune delle quali lodevoli, altre, invece, assai più discutibili. Tra le prime, annoveriamo l’eliminazione dei sussidi destinati alla distruzione delle eccedenze, il sostegno agli investimenti delle aziende, la verifica del rispetto dei disciplinari di produzione affidata non più ai consorzi bensì a soggetti terzi e le misure volte a garantire la tracciabilità del prodotto. (2)
Tra quelle negative figurano, il nuovo sistema di classificazione Vdt/Igp/Dop, nonché la normativa sui diritti d’impianto, reimpianto ed estirpazione dei vigneti che limita fortemente l’impianto di nuovi vigneti e fornisce premi per estirpare quelli già esistenti. (3) L’intera normativa spinge verso un contenimento della produzione con l’obiettivo di aumentare il livello medio dei prezzi e sostenere il reddito degli agricoltori, come riportato chiaramente nel regolamento. (4)
Anche volendo condividere, e non lo facciamo, gli obiettivi delle misure, che tralasciano totalmente di considerare il benessere dei consumatori, il problema risiede nel fatto che l’Unione Europea non è un’economia chiusa e non ha più l’esclusiva della produzione del vino. “Nuovi” produttori (in primis, Australia, Cile, Sud Africa, Argentina e Stati Uniti) stanno invadendo con i loro prodotti i mercati mondiali, il che tende a vanificare gli effetti della strategia comunitaria di contenimento della produzione in ambito europeo. Il tutto nonostante il costo considerevole sopportato dall’Unione che ha stanziato più di un miliardo di euro per il triennio 2009-2011 per incentivare l’estirpazione di vigneti spesso improduttivi.
Non sarebbe meglio lasciar funzionare il mercato? Col tempo i produttori peggiori uscirebbero spontaneamente dal mercato e vi sarebbero maggiori risorse da destinare all’innovazione delle aziende più competitive e desiderose di puntare sulla qualità. Il tentativo del legislatore comunitario di riequilibrare “d’ufficio” domanda e offerta in un’economia ormai globalizzata appare costoso e inutile.

SOLUZIONI SEMPRE ATTUALI

Nonostante il sistema economico stia cambiando velocemente, i problemi, e le relative soluzioni, non sembrano mutare in modo sostanziale nel corso del tempo. In un articolo apparso sull’Economic Journal, Charles Gide analizzava in modo lucido e puntuale le cause della crisi del mercato vitivinicolo francese. L’autore rilevava come, secondo molti economisti, la causa principale del crollo del prezzo del vino fosse l’eccesso di produzione, e non esiste allora soluzione migliore che affidarsi all’antica legge della domanda e dell’offerta: il calo dei prezzi indurrà alcuni agricoltori ad abbandonare la coltivazione della vite e ciò porterà a un riequilibrio tra domanda ed offerta.
Secondo l’autore, però, la vera radice del problema non era l’eccesso di produzione, bensì la carenza di domanda, questione ben più seria. (5) Si può, infatti, limitare per legge la produzione di vino, ma non si può certo imporre ai singoli individui di incrementare il consumo di bevande alcoliche. Secondo Gide, per ristabilire un equilibrio tra domanda e offerta, i viticultori avrebbero dovuto restringere spontaneamente la propria produzione, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Ebbene, l’articolo di Gide è stato pubblicato nel 1907..(6)
A cent’anni di distanza, alcuni osservatori restano dell’opinione che si debba offrire una via d’uscita agli imprenditori che non riescono più a essere competitivi, aiutandoli a riconvertire la produzione. In realtà, l’entità degli incentivi per ettaro (da 1.740 a 14.760 euro una tantum a seconda della resa) non sembra essere tale da spingere un imprenditore ad abbandonare la propria attività a meno che questa non sia fortemente in perdita, nel qual caso l’estirpazione avverrebbe anche senza alcun incentivo monetario.
In sostanza, abbiamo l’ennesimo aiuto di stato alla lobby degli agricoltori nell’ambito di una politica agricola comune (Pac) che da oltre cinquant’anni persegue quale obiettivo principale il sostegno dei redditi degli agricoltori a scapito dei consumatori e assorbe metà del bilancio dell’Unione Europea, sottraendo risorse preziose ad altri investimenti più strategici.
Ad ogni modo, è inutile illuderci: in un contesto caratterizzato dal costante calo dei consumi domestici e dalla crescente concorrenza internazionale, non saranno certo le restrizioni all’offerta e i premi all’estirpazione a risolvere l’annoso problema dello squilibrio tra domanda e offerta. Dopo oltre cento anni, ne dovremmo quantomeno prendere atto.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001841.html

Europa: quando mancano le regole

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di Charles Wyplosz

L’adozione della moneta unica avrebbe dovuto essere affiancata dall’introduzione dei necessari regolamenti e dall’azione di supervisione bancaria nella zona euro. Ma atteggiamenti nazionalistici o protezionistici hanno impedito che si compisse tale processo. Da questo immobilismo l’Europa ha almeno tratto qualche insegnamento? Nessuno, almeno per il momento.

CHI HA IMPARATO LA LEZIONE

Si sono accumulate montagne di rapporti che sostengono la necessità di rifondare da zero la regolamentazione bancaria. Due comitati internazionali di stanza a Bali (il Comitato sul controllo bancario e la Commissione di stabilità finanziaria) hanno fatto proposte molto valide che traggono insegnamento dalla crisi e che, se fossero adottate da tutte le piazze finanziarie, rappresenterebbero un progresso considerevole, istituendo regole del gioco comuni. Stati Uniti, Gran Bretagna e Svizzera hanno già fatto proprie, o lo stanno facendo, gran parte di queste raccomandazioni.
Nella zona euro si riflette sulla questione, ci si smarrisce in scelte politicamente facili (inquadramento dei bonus e relativa tassazione), ma ci si guarda bene dal toccare il cuore del problema, vale a dire i profitti e le cause di instabilità finanziaria. Non si è neanche chiarita ancora la situazione delle banche, come del resto risulta evidente dalla tardiva decisione di sottoporle a stress test, dopo aver peraltro discusso e cavillato sulla definizione di stress (molto dolce) e sulla pubblicazione dei risultati.
La lobby bancaria ovviamente si sta dando da fare. Negli Stati Uniti la riforma ha potuto progredire solo quando il presidente Obama è andato personalmente a Wall Street per dire ai banchieri di smetterla di boicottare il suo progetto. In Gran Bretagna e in Svizzera le lobby hanno resistito finché possibile, ma non hanno potuto impedire le riforme, anche se – sugli aspetti tecnici – c’è da aspettarsi alcuni colpi di forbice . Nell’Europa continentale non vi è alcun dibattito pubblico in proposito e i banchieri cercano di far passare la riforma di Bali come inadeguata.
Un altro insegnamento da trarre è che le autorità di supervisione bancaria hanno fallito. Non sono solamente quelle europee ad aver sottovalutato l’importanza dei rischi che andavano accumulandosi prima del 2007; è un fenomeno generale. Alcuni paesi hanno però imparato la lezione e preso misure interessanti. È il caso degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Svizzera e della Germania. La cosa più grave, senza dubbio, è che gli organismi internazionali sono ancora una volta riusciti a bloccare la creazione di un’autorità unica per la zona euro. Il Rapporto di Larosière aveva avanzato proposte – assai limitate – in questo senso, ma non si riesce a renderlo operativo.

LA QUESTIONE DELLA DISCIPLINA DI BILANCIO

Infine il terzo insegnamento – il più importante – riguarda la crisi delle finanze pubbliche in Europa e suggerisce che non può esistere moneta comune durevole, se in ogni paese membro non si rispetta la disciplina di bilancio. Non è una scoperta. Già nel 1989 il Rapporto Delors aveva sottolineato questo punto. Il Trattato di Maastricht aveva dedicato tre articoli al problema. I primi due stabilivano il principio secondo cui ogni governo è il solo responsabile del suo debito e gli altri governi, nonché la Bce, non debbono intervenire in caso di difficoltà. Il terzo articolo prevedeva il sistema di sorveglianza e di sanzioni, divenuto poi il Patto di stabilità e di crescita. Il Patto non ha funzionato, perché i paesi membri della zona euro sono sovrani in materia di bilancio: non si può dar loro ordini ed è politicamente difficile sanzionare un governo amico, democraticamente eletto.
Purtroppo sia l’aiuto urgente concesso alla Grecia, sia la creazione, nel maggio 2010, del Fondo di stabilizzazione finanziaria , sia infine il prestito accordato dalla Bce contraddicono lo spirito e persino la lettera del Trattato europeo. E così una crisi, originariamente solo greca, è divenuta crisi della zona euro non appena gli altri governi hanno deciso di non abbandonare i colleghi in difficoltà. Peggio ancora, i mercati finanziari – che la vedono più lunga dei governi – non si sono contentati delle vaghe promesse lanciate; ed ecco il lungo periodo di crisi e incertezza che ha contraddistinto i primi mesi di quest’anno, instillando il dubbio sulla capacità dei paesi membri di comprendere e gestire una crisi divenuta, nel frattempo, acuta.
E, di peggio in peggio, i governi, la Bce e la Commissione, con la manifesta volontà di rendere più rigidi Patto e sanzioni, sembrano far dipendere tutto il problema della disciplina di bilancio da un solo strumento, il Patto, che pure ha dato prova della sua inefficacia. Certo, l’obiettivo annunciato è quello di renderlo più incisivo, tuttavia non viene minimamente menzionata la contraddizione fondamentale col principio di sovranità in materia di bilancio. Così facendo, e cioè puntando tutto su uno strumento quantomeno dubbio, le autorità europee finiscono col relegare la questione della disciplina di bilancio in una zona ambigua e incerta. Ed è ciò che rende nervosi i mercati ed è il motivo per cui la crisi si prolunga. Né si vede come la zona euro possa uscirne.
Per il momento, la situazione ha cessato di deteriorarsi, perché in effetti le somme mobilitate nel mese di maggio sono considerevoli. Se i deficit dei paesi più presi di mira dai mercati finanziari (Grecia, Spagna, Portogallo) diminuiranno nei mesi a venire, tornerà la calma, pur perdurando le linee di frattura della zona euro. Tutti i paesi assumono provvedimenti anti-deficit, ma questi avranno successo unicamente se riprenderà la crescita economica, il che è ben lungi dall’essere certo, considerando la natura di tali provvedimenti. Se la piccola ripresa in corso perde vigore e i deficit aumentano, la crisi riprenderà ancor più forte di prima.
Forse, solo toccando il fondo si supereranno quelle resistenze e quelle reticenze che impediscono di giungere a due conclusioni, pur evidenti.
La regolamentazione e la supervisione bancaria possono funzionare solo a livello europeo, in quanto implicazioni della zona euro e del mercato unico. Tali funzioni devono essere centralizzate.
La disciplina di bilancio è cosa che riguarda il singolo paese: è a livello nazionale, pertanto, che devono essere presi i provvedimenti istituzionali capaci di arginare quelle derive che, da parecchi decenni, hanno fatto impennare i debiti pubblici. Il Patto di stabilità deve essere decentralizzato.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001840.html

Frodi carosello: le fatture false concorrono con la truffa aggravata

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Una “compresenza” possibile, non operando, nel rapporto tra i due illeciti penali, il principio di specialità
La falsa fatturazione può concorrere con la truffa ai danni dello Stato. È quanto emerge dalla lettura dell’articolata sentenza n. 27541 del 15 luglio, ove i giudici della Suprema corte, ancorché consapevoli del contrasto giurisprudenziale sul tema, hanno tuttavia dovuto confermare la decisione di secondo grado, più che per una condivisione della tesi sul concorso tra i due reati, perché si trattava di un principio che, nel caso specifico, era stato già affermato da una precedente sentenza di annullamento con rinvio dello stesso organo giurisdizionale. Principio che ha una sua forza di preclusività assimilabile a quella del giudicato proprio.

Il fatto
Si tratta delle accuse formulate nei confronti di alcuni imprenditori che, dopo aver emesso una serie di fatture fittizie per l’acquisto di carne, le avevano usate con delle società cartiere, mettendo in atto così una cosiddetta “frode carosello”. In modo sintetico, con tale locuzione si denominano quei tipi di frodi che avvengono utilizzando la particolare modalità di pagamento dell’Iva nel caso di operazioni intracomunitarie (non imponibili) – che non avviene al momento della cessione del bene da parte dell’operatore comunitario, ma allorché il cessionario italiano rivende il bene ad altro operatore nazionale – e che ha portato allo svilupparsi di frequenti condotte penalmente illecite dirette a non versare l’Iva dovuta.
Riguardo al complesso caso di specie, si rappresenta, in particolare, che alcune imprese, e conseguentemente i loro rappresentanti, avevano organizzato la tipica frode carosello sfruttando il particolare regime Iva sugli acquisti intracomunitari (articolo 38 e seguenti del Dl 331/1993):
a) cartolarmente acquistavano carne da fornitori italiani (fittizi) con regolare fattura detraendo la relativa Iva
b) questi ultimi acquistavano (sempre cartolarmente) la carne da imprese ubicate in Paesi Ue, ma non provvedevano al versamento dell’Iva una volta venduta la merce alle altre aziende italiane. In realtà, la carne era direttamente acquistata all’estero dalle imprese destinatarie delle fatture nazionali; venivano però interposte fittizie imprese italiane (società “cartiere” simulatamente create a tale scopo con produzione di documentazione fittizia) per non versare, da un lato, l’Iva dovuta in conseguenza della vendita e, dall’altro, per consentire la legittima detrazione della stessa Iva agli acquirenti. Entrambi i risultati si palesavano ovviamente raggiunti.

I responsabili della frode venivano perseguiti, tra l’altro, sia per i reati fiscali (emissione e utilizzazione di fatture false, reato previsto dagli articoli 2 e 8 del Dlgs 74/2000) sia per truffa aggravata ai danni dello Stato (articolo 640, comma 2, n. 1), codice penale).
La competente Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza del tribunale, decideva per la condanna degli imputati soltanto per il reato di fatture false perché, avevano motivato i giudici della Corte territoriale, questa fattispecie criminale era in rapporto di specialità (articolo 15 del codice penale, secondo cui quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale) con la truffa e come tale le pene non potevano essere cumulate, ma il secondo delitto doveva ritenersi assorbito nel primo.

Avverso tale giudicato la Procura della Repubblica presentava un primo ricorso alla Suprema corte, la quale con sentenza n. 6825/2007 annullava la decisione impugnata evidenziando che l’assoluzione era stata giustificata dal fatto che la truffa aggravata fosse stata in realtà commessa (e contestata) con la medesima condotta del reato tributario. Mancava quindi un elemento distintivo idoneo a differenziare le due condotte e a giustificare il concorso effettivo.
Secondo la Cassazione, dunque, le condotte erano distinte e quindi concorrenti perché i reati fiscali riguardavano l’emissione e l’utilizzazione delle fatture false, mentre la truffa concerneva l’interposizione delle società fittizie destinate ad apparire debitrici di Iva poi non versata all’Erario. Per questa ragione, la Cassazione annullava la sentenza impugnata per l’assoluzione per il secondo reato con rinvio della causa alla Corte d’appello affinché i giudici si uniformassero al principio stabilito. Infatti, nell’appello bis, la Corte del rinvio, preso atto di questa precisazione, riteneva quindi sussistente il concorso tra i due reati.
Nei confronti di questa nuova pronuncia gli imputati ricorrevano ulteriormente in Cassazione evidenziando anche l’insussistenza del concorso.

La nuova pronuncia della Cassazione
La Suprema corte, con la sentenza n. 27541/2010, si è nuovamente pronunciata sulla questione concernente il concorso tra il reato di truffa aggravata in danno dello Stato e i reati fiscali disciplinati dagli articoli 2 e 8 del Dlgs 74/2000 e, questa volta, fatta eccezione che per la posizione di uno soltanto dei ricorrenti, ha confermato il verdetto della sentenza gravata. “Né può farsi nel merito – ha motivato la sentenza in esame – questione di insussistenza di artifizi e raggiri giacché ai ricorrenti è attribuita sia l’emissione che l’utilizzazione di false fatture in vista della creazione e dell’impiego delle stesse ai fini dell’elusione fiscale” (va evidenziato che anche il delitto di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000 è di pericolo e di mera condotta, diversamente da quello di cui all’articolo 640 del codice penale che, come già rilevato, è reato di danno e di evento).

La Suprema corte ha dovuto tuttavia rilevare l’impossibilità di discutere sul principio di diritto affermato in precedenza nella sentenza di annullamento con rinvio, pur a fronte dell’evidenziato contrasto giurisprudenziale sul tema.
In particolare, il giudice di legittimità ha stabilito e confermato (rispetto alla prima pronuncia n. 6825/2007) che “é ammissibile il concorso tra il reato di truffa aggravata in danno dello Stato e quelli di emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non operando, nel rapporto tra i suddetti illeciti penali, il principio di specialità, la cui sussistenza va verificata sulla base del raffronto tra le norme incriminatrici, scomposte nei loro singoli elementi, e della individuazione dei beni giuridici protetti”.
Nel giudizio di merito, il reato di truffa era stato “configurato, […], in relazione alla interposizione di società cartiere destinate ad apparire, col mezzo della emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, debitrici di IVA in luogo delle società effettivamente destinatarie degli acquisti di merci, IVA che poi indebitamente non versavano all’erario, con conseguente danno patrimoniale a carico di questo”.
La Corte d’appello aveva ritenuto che la condotta suddetta sarebbe stata riconducibile sia ai reati consistenti nella frode fiscale sia al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato e aveva concluso, in applicazione del principio di specialità di cui all’articolo 15 del codice penale, nel senso che il secondo delitto doveva ritenersi assorbito nel primo. A tale conclusione l’organo giudicante perveniva sulla base delle seguenti osservazioni:
a) il reato di truffa era stato contestato con la stessa condotta del reato tributario specifico, ex articolo 4 della legge 516/1982
b) nel caso concreto difettava il quid pluris necessario a differenziare le due condotte criminose e ad avvalorare, pertanto, il concorso effettivo e non meramente apparente delle fattispecie menzionate.

Tale interpretazione è stata criticata dalla Corte di Cassazione, secondo cui la tesi dell’assorbimento potrebbe trovare applicazione per l’attività di utilizzazione delle fatture fittizie mediante indicazione del loro importo nelle dichiarazioni annuali, mentre si dovrebbe propendere per la conclusione opposta allorché si verta nella condotta dell’emittente, che risulterebbe del tutto svincolata dagli artifici e raggiri posti in essere per indurre in errore l’erario e cagionargli un danno.
Tale ultima affermazione, secondo l’assunto del giudice di legittimità, sarebbe supportata anche dal fatto che la condotta di emissione della documentazione falsa è attività meramente preparatoria a una successiva e solo eventuale evasione di imposta e, in virtù della disposizione contenuta nell’articolo 9 del Dlgs 74/2000, non sarebbe punibile a titolo di concorso nella condotta di utilizzazione.
Di talché, la posizione dell’emittente rimane cristallizzata esclusivamente all’attività di rilascio della falsa documentazione, non essendo necessario per l’integrazione del reato fiscale che l’evasione delle imposte e, cioè, il danno per l’erario, venga concretamente a realizzarsi (l’argomentazione trova recente conferma nella sentenza n. 26138/2010, nella quale si legge che “l’evasione di imposta non è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ma configura un elemento del dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell’agente, in quanto per integrare il reato è sufficiente che l’emittente di fatture si proponga il fine di consentire a terzi la evasione delle imposte sul reddito o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo consegua effettivamente la evasione”).
Quest’ultima considerazione è decisiva ai fini dell’esclusione della sovrapponibilità del comportamento relativo al reato citato rispetto a quello integrante il delitto di truffa, che, come ricordato, richiede il conseguimento di un ingiusto profitto con la causazione dell’altrui danno; diversa, infatti, è la natura dei reati in oggetto, di pericolo e di mera condotta la frode fiscale, di danno e di evento la truffa (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 35773/2001).

Per la Suprema corte, l’applicazione del principio di specialità dovrebbe essere esclusa anche quando il reato di truffa aggravata si ponga in rapporto con quello di utilizzazione di fatture fittizie. Infatti, non solo il conseguimento di un illecito risparmio di imposta è del tutto irrilevante per il perfezionarsi del delitto di frode fiscale, ma anche l’elemento soggettivo del primo reato, rappresentato, come si è ricordato, dal dolo specifico di evasione, non coincide con quello richiesto per la truffa, consistente nel dolo generico, e cioè nella coscienza e volontà di ingannare la vittima inducendola all’atto di disposizione patrimoniale, e di realizzare l’ingiusto profitto, proprio o altrui, a danno della vittima predetta. Per risolvere il dubbio sull’operatività del principio di specialità, il confronto andava effettuato tra le fattispecie astratte, non apparendo invece risolutivo il confronto tra beni giuridici tutelati (Cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 27/2000), posto che nel caso trattato il bene giuridico tutelato dalle due norme è lo stesso.

Le differenze strutturali delle suddette fattispecie sono ancora più evidenti, quando si dibatte in tema di tentativo: invero, quella disciplinata dal codice penale è punibile anche a titolo di delitto tentato, contrariamente alla frode fiscale, secondo quanto stabilito dall’articolo 6 del Dlgs 74/2000.

In sostanza, non e’ stato fatto buon governo da parte della Corte territoriale del principio per cui, in caso di illeciti fiscali connessi al mancato pagamento di determinate imposte, la ravvisabilità del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato non costituisce violazione del principio di specialità, qualora dalla dinamica dei fatti e sulla base di obiettivi elementi di riscontro si configuri una condotta truffaldina tipica e inequivoca desunta dalle particolari modalità esecutive della evasione fiscale.
Pertanto, il reato di frode fiscale, nelle due varianti dell’emissione e dell’utilizzazione di documentazione ideologicamente falsa, concorre con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato ogniqualvolta le condotte fraudolente ne determinino l’induzione in errore e sfocino nel concreto conseguimento di un illecito risparmio di imposta.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/frodi-carosello-le-fatture-false-concorrono-con-la-truffa-aggravata

Responsabilità sociale d’impresa, un antidoto alla crisi

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Nonostante la difficile congiuntura economica, le imprese investono sempre di più nel sociale. Un nuovo business o un metodo di promozione indiretta? Ogni tanto è necessario dare una buona notizia.

Dà fiducia e morale a chi la legge e pure a chi la scrive. La buona notizia di oggi è che le imprese italiane, nonostante i colpi di una crisi economica che non accenna a passare, investono nel sociale.

Secondo le statistiche elaborate dall’Osservatorio Socialis, oltre il 70% delle aziende prese in esame dallo studio (800 aziende con oltre 100 dipendenti) hanno investito fondi in iniziative di responsabilità sociale.

Le somme erogate sono superiori al miliardo di euro nel solo 2009 e superano i sei miliardi se si considerano gli ultimi otto anni.

Un bel risultato in un periodo così.

Il trend positivo dovrebbe continuare nei prossimi anni.

Esaminando i dati dello studio si notano elementi interessanti: fra le aziende più grandi, sia in termini di fatturato che di dipendenti, la percentuale di investitori sale fino all’88%, mentre a livello geografico, un po’ sorprendentemente, pare che il concetto di CSR (Corporate Social Responsability) sia più accettato dai manager delle imprese del centro sud che da quelli del nord Italia.

Quanto ai soldi investiti, il boom rispetto al 2001 è di palese evidenza se si considera il passaggio dai 110.000 euro del 2001 ai 161.000 euro del 2009.

Coloro che spendono di più sono di solito grandi aziende, specie quelle del settore bancario/finanziario e assicurativo e sono ubicate nel Centro Italia.

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Fonte: www.i-dome.com

Imprese italiane: -9% la domanda di credito

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di Alessandra Gualtieri

In calo la domanda di credito (-9%) da parte delle imprese italiane nel primo semestre 2010: lo dice il Barometro CRIF, che ha analizzato circa 8 milioni di linee di credito concesse a utenti business (imprese individuali, società di persone e capitali).

Complice un riequilibrio dell’andamento dopo il picco dovuto alla crisi dello scorso anno, la richiesta di prestiti è comunque molto alta e di certo superiore al 2007 e 2008 (rispettivamente 11% e 19%).

La situazione resta dunque di allerta, come ha spiegato Enrico Lodi, Direttore Generale Credit Bureau Services di CRIF: «negli ultimi 18 mesi è stata registrata una significativa contrazione della propensione ad investire, in attesa di un consolidamento della ripresa».

Nello specifico, la domanda di credito da parte di imprese individuali e società viaggia di pari passo, tranne che negli ultimi mesi, dove a richiedere credito sono soprattutto le società.

Il calo della domanda nel 2010, in estrema sintesi, è più che altro il frutto di una prudenza a investire oltre che un risultato inevitabile dopo il boom dello scorso anno.

Dati, questi, che confermano i risultati dell’Osservatorio sulla finanza dei Piccoli Operatori Economici (cioè le Pmi con meno di dieci dipendenti), prodotto da CRIF Decision Solutions e Nomisma.

Secondo l’indagine sui POE, le microimprese pronte a investire sono nel 2010 il 24,5%, in calo di oltre il 2% rispetto al 2009.

L’unico segmento in attivo per quanto riguarda gli investimenti dei POE è il Commercio (+4%). Di contro, il Manifatturiero è quello che sta pagando lo scotto maggiore della carenza di credito (dal 35,8% del 2007 al 18,1% del 2010), seguito dal Terziario, in attesa di una ripresa dei mercati internazionali.

Fonte: http://www.pmi.it/finanziamenti/news/7507/imprese–9-la-domanda-di-credito.html

Straniero perde lavoro? Non perde permesso di soggiorno

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L’immigrato che perde il posto di lavoro non perde la possibilità di vedersi rinnovare il permesso di soggiorno. Questo principio di diritto è l’esito della sentenza del Tar Campania secondo cui anche se un cittadino extracomunitario (nel caso di specie, algerino) risulta disoccupato da almeno due mesi, questo non va ad incidere sulla possibilità di permanere nel nostro territorio. La Sentenza del Tribunale amministrativo campano, depositata il 27 luglio scorso, in particolare la n. 16994 ribalta la decisione della questura partenopea che aveva negato allo stesso cittadino straniero il permesso di soggiorno in quanto disoccupato. Secondo i giudici amministrativi non si può negare il permesso di soggiorno solo sulla base della cessazione del rapporto di lavoro senza prevedere contestualmente un termine entro cui il cittadino possa provvedere a sistemarsi con un’altra occupazione.

Luisa Foti

Fonte: http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_8799.asp